venerdì 30 agosto 2013

Avrei voluto tornare presto.

Avevo promesso che sarei tornata presto, poi sui gradini della chiesa ho incontrato un'amica che mi aspettava da un pezzo con una bottiglia di vino in mano e un pacchetto di patatine del discount. Quando ho provato a dire che ho promesso che torno presto lei ha fatto per offendersi e io proprio non volevo si offendesse, quindi ho legato la bicicletta le ho dato un bacio e mi sono seduta anch'io. Le ho detto che per Resistere non è importante agire bene quanto non fare cazzate e credo anche di essermi sentita piuttosto acuta per aver pronunciato questa massima. Non andare a un concerto di Jovanotti, tipo, o non guardare Striscia la Notizia o non buttare rifiuti per strada o non comprare prodotti israeliani: la passività è la sola salvezza ho poi aggiunto (e capirete a che livelli era ormai la mia autostima), il che, a posteriori, sembra proprio un tentativo di giustificarsi mal riuscito. Al che, la mia amica, a cui non la si dà a bere tanto facilmente, mi ha chiesto se fossi ubriaca e io, beh, dico, mi ero appena alzata dal tavolo in effetti. Ma ubriaca no, dai, era un insulto. Nei miei ricordi mi vedo alzarmi e fare quel giochino di basilare equilibrismo che avrebbe dovuto dimostrare la mia perfetta sobrietà, ovvero ginocchio destro alzato e due spanne che lo uniscono al naso: riesce benissimo, dato l'intenso allenamento che ormai mi permette di farlo anche nelle peggio situazioni.
Continuavo a dirmi che sarei tornata presto, che l'avevo promesso, ma nel frattempo arrivavano delle persone che volevano essere intrattenute con la mia teoria della Resistenza, che di minuto in minuto guadagnava proseliti, e io di certo non potevo rifiutarmi di fronte ad un così grande interesse. Sai, il non leggere la Mazzantini, il non insultare il vicino di casa per noia, il non costruire armi di distruzione di massa. Ho parlato anche con alcuni livornesi con il telefono di qualcuno, si chiamavano Fabio e Manuele (forse), con un tono di voce che eufemisticamente potrei definire alto. Poi mi sono accorta che la mia amica era sparita, forse era in chiesa, e che purtroppo anche quella sera non ero riuscita a tornare presto. Ma anche se non era presto sono tornata a casa, ad un certo punto, ed entrando in camera non ho fatto rumore per non svegliare nessuno, perchè anche questo rientra nella pratica della Resistenza passiva.

sabato 24 agosto 2013

Attese.

Diceva esco a fumare una sigaretta e scompariva per delle ore.
Non c'era traccia nel cortiletto di casa mia, eppure ero sicura che non avesse aperto il cancello. Nascosto da qualche parte, tra un oleandro o un albicocco o un vaso, in quei cinque metri quadri di foresta pluviale che ci separavano dalla civiltà metropolitana. Nel frattempo scoppiavano temporali, cessavano altri temporali, sotto un cielo incerto e pigro che asciugava facilmente le risibili pozzanghere che si formavano sul vialetto tra le crepe del selciato; si faceva buio e io sempre lì, seduta sul tavolo bianco della cucina, con gli occhi fissi al di là della finestra. Di tanto in tanto mi addormentavo, mantenendo la stessa posizione, per poi svegliarmi di scatto, rimproverandomi per le mie scarse capacità di sorveglianza. Non avrei potuto fare altro che stare immobile ad aspettarlo, nient'altro aveva senso. Solitamente si tende a credere che è impossibile non pensare a niente: io ero la prova vivente che è invece possibile, anzi talvolta è l'unica alternativa. Ero un vegetale, priva di una qualsiasi vita interiore, essere creato al solo scopo di aspettarlo.
Poi, così com'era scomparso, riappariva e bussava alla porta-finestra. Ma mi hai chiuso fuori?!? Sorrideva con quei suoi dentini perfetti. Cosa ci prepariamo stasera? Ho una fame...
Qual era il suo trucco? Non glielo chiesi mai, non lo capii mai. Finii per considerarlo normale e ad abituarmi a quelle pause dalla mia esistenza, buchi neri senza memoria.
Sorridevo anch'io allora, sollevata. Riprendevo possesso del mio pensiero e, mentre lo sentivo intento nella cucina, cominciavo a leggere a suonare a scrivere, inconsciamente ansiosa di recuperare il tempo inattivo. Per qualche insidiosa controindicazione del relativismo, ero convinta che non avrei potuto essere più felice.

mercoledì 21 agosto 2013

Intelligentissimi.

Eravamo intelligentissimi, quattro fratelli intelligentissimi. Maestri di retorica e insieme matematici, fisici, chimici, nonchè esperti in letteratura e musica classica, lasciavamo gli adulti a bocca aperta, pronunciando sentenze argute dal basso di occhiali a lenti spesse. Eravamo una squadra vincente, inseparabile.
Se prima ci furono le firme di autografi ai parenti (incorniciate nello studio dai più), poi arrivarono i quiz televisivi, i talk show, la mano al Presidente, la copertina del Time. Eravamo destinati a conquistare il mondo, a dirigere la classe dirigente del futuro; avremmo potuto distruggere o ricostruire tutto ciò che era esistito fino ad allora.
Poi, prima che chiunque tra noi varcasse la soglia dei sedici anni, litigammo. La competizione ci logorò, la paranoia s'impadronì della nostra ragione, sospetti di scorrettezze ci avvelenarono i pensieri. La solitudine divenne il nostro mondo. Cause legali si susseguirono per anni sotto gli occhi voraci dei mezzi di comunicazione, cavalcatori di rancori e tensioni: nessuno ci invitava più in televisione per discutere delle fonti di energia alternative, ma solo per alimentare pettegolezzi e dicerie. I parenti iniziarono, uno ad uno, a togliere i nostri autografi dalle pareti; mio zio me lo rispedì addirittura a casa.
Ormai è qualche anno che non ho notizie di qualcuno dei miei fratelli, anche se spero prima o poi di riconoscerne l'espressione, ancora amareggiata e sconfitta, camminando per strada. Non credo che io avrò mai il coraggio di alzare la cornetta, dopo quello che ho osato fare, dopo quello che hanno osato fare.
Io, da parte mia, ho perso ogni curiosità. Lavoro in un ufficio di collocamento dove le ore passano lente e ordinarie, ideali per dimenticare tutto quello che ho imparato nei primi anni della mia vita. Perchè ora voglio solo dimenticare quella presunzione del sapere che mi ha distrutto. Ho sposato una collega, di cui spero di innamorarmi, prima o poi.
Non credo più di essere intelligentissimo.