lunedì 23 dicembre 2013

I am trying to break your heart.

C'è la storia di questo bevitore di acquari che assassina lungo il viale e si chiede a cosa stava pensando quando l'ha lasciata andare. E' una storia a cui penso di tanto in tanto, ma che in clima natalizio s'impossessa completamente della mia testa.
Sarà che era Natale, qualche anno fa, quando ho ascoltato per la prima volta quella canzone. Nevicava, era finita la scuola, prendevo il tè a casa di amici con cui non sapevo di cosa parlare. Avevo tante cose per la testa e probabilmente credevo che fosse un brutto periodo. Non lo era. Ma a posteriori non vale.
Ricordo che leggevo Franzen e da allora Franzen e Wilco rappresentano per me un connubio indissolubile, uno stessa opera scissa in due forme d'arte diverse. Anche se non so di cosa parli la maggior parte delle canzoni degli Wilco, io ci sento dentro il trovarsi e perdersi in vecchi appartamenti con persone che credevi di aver dimenticato, le relazioni che sembrano non reggere (ma alla fine reggono) alla quotidianità sotto il tetto di ville a schiera prefabbricate, i grandi ideali che devono scendere a compromessi con la realtà, figli che non parlano con i padri e padri che non parlano con nessuno. Ci sento dentro tante cose comuni e facili e l'estrema problematizzazione di queste cose tanto comuni e facili. Vedo persone che stanno bene, hanno una bella famiglia e una buona educazione, e poi vedo queste persone realizzare che tutto ciò non è abbastanza: le vedo distruggere tutto e struggersi in rimpianti o ambizioni estreme.
E questo bevitore di acquari che sta provando a spezzarle il cuore è uno di loro. Non gli risulta per niente difficile, spezzarle il cuore. E' un attimo, ci vuole poco. Ma una domanda lo tormenta: cosa pensavo allora? Quando tutto era immobile, ancora intero, e sembrava naturale stringersi, darsi la buonanotte, dirsi puzzi di alcol o smettila di sorridere, quando si poteva tornare indietro senza troppi danni. Quando ci si faceva del male a vicenda e poi si mentiva, tranquillo sto bene.
Da lì in poi c'è solo l'istinto all'autodistruzione. Con operazioni precise, chirurgiche, silenziose. E nella pulizia generale nel cestino finiscono anche quelle sensazioni provate un po' per caso, con spirito indolente, così flebili da svanire nell'impatto con il bisturi della razionalità.
Cosa pensavo allora? A problematizzare le cose semplici, credo.

giovedì 19 dicembre 2013

Discorsi sterili.

Mi affacciai allo studio e vidi mamma e papà alla scrivania, entrambi con un portatile davanti a sè.
Ciao dissi. Mamma si girò dalla sua postazione, ciao tesoro, papà invece emise un grugnito e mosse appena la testa, con quello che avrebbe dovuto essere un cenno di saluto. Non so se si parlassero allora, mentre erano così intenti in quei traffici informatici. Forse mamma ogni tanto gli chiedeva come mandare una mail a più destinatari o come salvare una foto da internet: era ancora una principiante, come era solito dire papà ai suoi colleghi, con un misto di orgoglio per la sua creatura e di disprezzo per le scarse capacità della moglie. Ogni tanto, dopo qualche bicchiere di vino, le dava un buffetto paternale sulla guancia.
- C'è qualcosa da mangiare?- chiesi.
- Sì, tesoro, c'è la pasta da scaldare. Aspetta che ti aiuto-
Mamma si alzò, andò in cucina, scoperchiò il piatto che era sul tavolo, lo mise nel microonde, poi sbuffò: << Che fatica, sono stanchissima... Tu come stai piccola mia?>>. Le risposi niente male, non fosse che avevo bevuto un po' troppo ed ero caduta dalla bici: non le raccontai (nè lei me le chiese) le circostanze dell'incidente, altrimenti temo che sarei stata costretta a mentire. << Dovresti stare più attenta tesoro, e forse non bere più... Non vorrai mica diventare come tuo padre!>>. Dall'altra stanza arrivò la voce di papà che mi dava le indicazioni su dove si trovava il disinfettante. << Hai capito dove tesoro? Ce la fai da sola?>>. Poi tornò nello studio senza una parola.
Le tagliatelle ai funghi erano deliziose, come sempre; erano il piatto preferito di papà e mamma le cucinava spesso. Da quand'è che erano diventati così? mi chiedevo stancamente, un occhio a Floris, uno al cellulare. Non me ne importava molto, in verità, e d'altronde in quella casa non è che ci passassi molto tempo. E non avrei neanche saputo dire in cosa consisteva quel così. I miei genitori non erano mai state delle persone coinvolgenti, ma forse c'era stato un periodo in cui si erano illusi che lo fossi io, una persona coinvolgente. Voglio dire, in tempi diversi mamma mi avrebbe inondato il ginocchio di acqua ossigenata fino a farmi urlare di dolore.
Ma, in fondo, chissenefrega. Discorsi sterili. Se è per questo sono passati anche i tempi in cui bastava l'acqua ossigenata a farmi piangere di dolore.

venerdì 6 dicembre 2013

Capirmi.

Si fa un passo in avanti, dieci indietro, undici in avanti e alla fine si è sempre lì, in quel punto di equilibrio e consapevolezza individuale che non ci si scolla mai di dosso.
Al momento, credo di essere nella fase diecipassindietro. In particolare sono arrivata a quella conclusione infantile già confutata da tempo per cui il mondo - inteso come amalgama, indefinibile ma ben definito nella coscienza di ognuno, di esseri viventi beni mobili e immobili schermi neri condizioni atmosferiche - non mi capisce. E nemmeno si sforza di capirmi. La mia amica non s'impegna minimamente per capirmi e nemmeno la mia scarpa o il libro che sto leggendo. Ci vorrebbe del tempo, per capirmi, invece hanno sempre tutti da fare.
Io non parlo, ho smesso di parlare da tempo (unico rimasuglio dei brillanti risultati raggiunti qualche casella più avanti), e a nessuno importa. Nessuno se n'è accorto che ho smesso di parlare.
Ho detto a mio fratello che sono anni che non mi chiede come sto. Lui mi ha guardata, ha guardato la mamma, poi si è messo il cappotto e ha detto che andava in palestra. Se me l'avesse chiesto, come stavo, io gli avrei risposto che stavo bene senza troppa convinzione; e allora sì che mio fratello avrebbe potuto indagare, cercando di capire cosa c'era che non andava. Troppo facile se l'avessi esplicitato io. Uno ci dovrà pur mettere un po' di impegno per capirmi.
La globalità dell'esistente è in debito con me, per non aver mai cercato di capirmi. E che poi non ci sia niente da capire è un altro discorso, del tutto irrilevante. Ma lo sforzo, almeno quello, mi è dovuto.

domenica 17 novembre 2013

Niente paura.

Da questo momento in poi tieni a mente che ogni anno dovrai rinunciare a qualcosa. Inizierai con le gite familiari fuori porta e con i concerti a centinaia di chilometri di distanza, poi arriverà il momento della cineteca, del festival di letteratura, della cena con gli amici, della pausa di riflessione. Ci sarà un momento in cui potrai permetterti solo una doccia alla settimana. Della corsa serale non avrai più bisogno perchè la corsa sarà perpetua ed interminabile.
Ora ti sembra che non potrai sopravvivere in queste condizioni, che riuscirai a trovare tempo per le cose che adesso ti sembrano irrinunciabili. Non riuscirai. Ma niente paura, ti abituerai a tutto.

martedì 5 novembre 2013

Dieci libri.

Dieci libri possono bastare. Scelti bene, sia chiaro. Scelti tra quella lista dei mille libri che contano qualcosa. Dieci libri che ti spendi bene in ogni situazione, che citi a memoria e a cui nelle discussioni fai ricondurre le radici di tutta la letteratura mondiale, lasciando intuire che, comunque, questa suddetta letteratura, l'hai esplorata a fondo. Guarda, per me dopo Il nome della rosa in Italia s'è scritto poco altro di davvero dirompente.
Dieci libri sono sufficienti perchè ti passi la voglia di addentrarti troppo in quel mondo di scrittori. Perchè quelle paranoie, quei sensi di colpa e i vittimismi e il continuo piangersi addosso e l'esistenzialismo da due soldi, quella è roba che non esiste, roba che la gente sana non ha mai provato sulla propria pelle. Sono migliaia di anni, poi, che questi s'ingobbiscono e si rovinano la salute per dare prova dei loro disagi. Che poi, detto tra noi, raccontano tutti la stessa cosa. Un corale inno all'infelicità.
Le librerie chiudono, i libri finiscono nei cassonetti perchè la gente non sa più che farsene. C'è il cinema, per Dio, c'è la televisione, c'è Internet. Ma questi, imperterriti, continuano a scrivere.
Tuttavia non si può far finta che i libri non esistano: purtroppo ci sono e qualcuno bisognerà pur leggerselo. Quindi sì, direi dieci libri. Uno all'anno e in dieci anni ti sei tolto il pensiero. Non che abbia qualche importanza eh, è solo una faccenda così, puramente folkloristica. Per darti un tono, niente di più.

domenica 3 novembre 2013

Leggi un po' anche per me.

Era sul terrazzo e parlava animatamente al telefono.
F. era in cucina a sparecchiare, a lavare i piatti, a pulire i fornelli.
Una luce grigia filtrava dalle tende semi-chiuse. F. alzò il volume della radio per non sentire la conversazione che avveniva ad un corridoio di distanza da lei. Una triste e rassegnata rabbia si impadronì del suo stomaco.
Finiva sempre così, pensava F. Finiva che passavano l'intera settimana a programmare quei weekend insieme, a fare la lista delle cose che avrebbero fatto, a immaginare i vestiti che avrebbero messo, e poi c'era sempre un impegno improvviso che sopravveniva.
C'era qualche pretesa del datore di lavoro, c'erano le liti familiari da sedare tempestivamente, il televisore da riparare, poi il sonno, la noia, l'indolenza. E poi c'era chissà cos'altro, che F. non conosceva...
Tornò in cucina. Devo scappare disse, torno tra poco. Le stampò un bacio sulla fronte e si piegò ad allacciarsi le scarpe.
Avevano dormito insieme quella notte, sotto lenzuola rosa e coperte calde; era stato bello come sempre. Si erano alzati giusto un paio di volte per un bicchiere d'acqua, non avevano sentito freddo e si erano svegliati dodici ore dopo, ristorati come bambini. Ora però, sembrava che quella sottile e quasi impercettibile gioia non fosse mai esistita. Mentre lui si infilava il cappotto, nel suo intimo F. sperava che per una volta cambiasse idea e rimanesse a casa con lei, sperava che intuisse la sua inquietudine. Era pronta a perdonargli la sua ennesima indelicatezza. Ma quello, figurarsi, quello da solo non si accorgeva mai di nulla.
L'ennesima delusione, poi quel rancore silenzioso, riscattato penosamente da ogni nuova promessa.
Aprendo la porta lui le sorrise con dolcezza e le sussurrò in un orecchio leggi un po' anche per me questo pomeriggio!

mercoledì 23 ottobre 2013

Ricominciare da capo.

Il punto più alto di Milano (tolti i palazzoni di vetro che di tanto in tanto sbucano) fa fatica ad arrivare ai 50 metri. Mi piacerebbe dire che dall'alto si vede tutta la città, ma in giornate come queste (tutt'altro che rare) si distinguono appena le case popolari verso il Gallaratese e, dall'altra parte, quello splendore architettonico che è l'Iper Portello. Ecco, oggi è una di quelle giornate in cui se fossi stata bocciata potrei facilmente trovarmi a fare una corsa campestre all'Idroscalo. E a invidiare i miei compagni di classe curvi sugli appunti. Perchè le corse campestri le organizzano solo in giornate in cui la nebbia è quasi solida, quando sta per piovere, te lo senti proprio, ma finisce che non piove mai, e sulla linea di partenza le altre (con tanto di scritta in fronte tesserata Fidal) sgomitano e la frase chi me l'ha fatto fare si ripete come un mantra nella testa, tanto da acquistare la dignitosa autonomia di motivetto cantabile.
E oggi è una di quelle giornate lì, l'apocalisse è vicina e io vado a correre, perchè non mi viene in mente nient'altro da fare. Non c'è un'anima, devono essere tutti all'Idroscalo. Solo cani e accompagnatrici zitelle di cani intralciano l'andatura acciaccata.
Poi nel mio campo visivo compare questa coppia di quarantenni brutti e goffi, i pantaloni a coste sporchi di fango e le giacche a vento fino al ginocchio. Lei si piega per fare una foto a una foglia caduta a terra e gliela mostra soddisfatta, lui la abbraccia da dietro e le dà un bacio dietro l'orecchio, sempre in questo modo impacciato e fantozziano. Penso che forse è per loro quel periodo in cui anche le foglie colorate a terra hanno un che di romantico e dolce, quel periodo in cui anche un certo tipo di quarantenni possono illudersi di poter ricominciare da capo (ma cosa, poi?).
E sono usciti prima dall'ufficio per questa gita fuori porta. Lui le avrà fatto una proposta spiritosa, tipo "Oggi ti porto a raccogliere i funghi" e lei, trasognata, "Perchè non le conchiglie?".
Ma è solo un attimo, poi sono già dietro di me. Non riesco a capire se quello che sento sia un timido fremito di gioia o un buco nero di sofferenza.
Quando ripasso se ne sono già andati.

domenica 20 ottobre 2013

Princìpi di

Presente quelle persone che quando le incontri tempestano di domande il proprio interlocutore?
Ecco, io sono una di quelle persone. E il bello è che l'interesse che provo per le avventure sentimentali del monologante che siede di fronte a me, per le sue sbronze storiche, per i suoi aneddoti liceali, per il suo prof balbuziente di microeconomia, per il premio vinto dal suo amico scrittore, ecco, quell'interesse è praticamente pari a quello che provo di fronte all'estinzione dei panda o all'ultima dichiarazione della Carfagna. Nel mio intimo però, con una certa dose di masochismo, spero che l'entusiasmo del mio compare, la sua riserva di parole, non finisca mai, affinchè non si arrivi alla temutissima domanda: "E tu come stai?" o, ancora peggio, "Cosa mi racconti tu?".
Io, boh, la verità è che non ho mai niente da raccontare. O meglio, niente di così eclatante da meritare un racconto dettagliato. In effetti, anche i miei interlocutori potrebbero fare questo ragionamento, eppure non lo fanno. E meno male. C'è bisogno di persone che riempiano il silenzio.
Finisce che rispondo che sto bene, tutto regolare, e poi mi butto su qualche pettegolezzo.
A volte me la cavo intervenendo nel suddetto monologo con qualche commento sorpreso o sarcastico. Magari con qualche consiglio, una consolazione, un complimento. Funziona molto bene con i narcisi.
Potrei anche sembrare una persona socievole ed estroversa, basta che non mi facciano parlare per più di due minuti consecutivi.
In verità, ecco, credo di avere un principio di autismo.
Il sollievo che mi dà il restare di nuovo sola giustifica la fatica del colloquio. Talvolta serve che qualcuno mi ricordi quanto sia piacevole il chiudersi in se stessi.

E poi è piacevole anche quando neanche l'altro ha niente da raccontare. Ci si guarda negli occhi sorridendo o non ci si guarda proprio. Io la smetto con le domande. E mi sento a mio agio come se fossi sola, ma molto meglio.

lunedì 23 settembre 2013

Va tutto bene.

Come vorrei venirti incontro alla stazione. Che prima ti aspetto con trepidazione, arrivo in anticipo al binario perchè per una volta non voglio arrivare tutta trafelata e sudata e magari il treno arriva in anticipo e non vorrei che tu non mi trovassi, invece è in ritardo e io non so come passare questi dieci minuti che mi separano da te, ho il giornale in mano ma non riesco a leggere, allora riguardo gli orari, poi faccio su e giù per la banchina e finisce che anche questa volta ti abbraccerò tutta sudata. Compro un ombrello, che può sempre piovere. E infine il treno arriva, ti vedo scendere e ti corro incontro (così, per sudare ancora un po' e non deludere le tue aspettative). Ed è davvero bello come pensavo venirti a prendere in stazione, niente a che vedere con il citofono, lo squillo, il clacson sotto casa.
E quindi, dicevo, vorrei venirti incontro alla stazione alle 10 di mattina, quando i pendolari sono già al lavoro da un pezzo e il gelo quello doloroso ha lasciato il posto a un freddo pungente e quasi piacevole, dolce. Un tè caldo che hai mal di gola, ti avvolgo la mia sciarpa, un abbraccio lungo fino a che mi fanno male le braccia e ti rimprovero, con quella stupida aria da finto-offesi che hanno certi animali baciati dalla felicità e che solo dei loro simili possono guardare con benevolenza.
Ti verrei incontro alla stazione con un paio di jeans nuovi e con quel solito paio di scarpe di cuoio che ho aspettato tutta l'estate per poter rimettere.
Un giorno di festa, le mani coperte dai guanti, il respiro faticoso, la pelle avvizzita. E poi quella voce interiore che accompagna ogni gesto, che copre ogni pensiero: va tutto bene, va tutto bene. Va tutto bene.

lunedì 16 settembre 2013

I bidelli.

I bidelli oggi, con profondo rammarico della comunità, non si chiamano più bidelli ma collaboratori scolastici, eppure non sono cambiati, sempre bidelli sono, cioè, puliscono con la stessa svogliatezza, vengono dalla Calabria, leggono riviste dal dubbio valore culturale e conoscono i pettegolezzi dell'intero istituto scolastico. C'è sempre un prof di storia che allunga le mani sulle studentesse e una supplente di educazione fisica che al suo passaggio fa voltare la testa ai mariti più fedeli, per non parlare di quello che se per caso lo tocchi dopo due giorni muori d'infarto: il bidello lo sa, con tanto di particolari e testimoni.
I bidelli sono Nunzia, Alfia, Beppe, Walter, Sergio, Filomena. Tra loro c'è anche l'assistente tecnico, che, seppur può vantare un grado di responsabilità maggiore e un rapporto con i professori più diretto, rimane sempre un bidello, oltretutto con il privilegio di pause caffè interminabili. Tra l'altro, la sua assistenza tecnica è efficace quanto una martellata sul server.
Quando passo davanti a scuola ne vedo sempre un paio fuori, a prendere una boccata d'aria o a fumare una sigaretta. Le donne tinte da quando hanno vent'anni, gli uomini stempiati da quando ne hanno diciotto. Mi prende una certa allegria, anche se alcuni ai tempi non erano del mio piano e li vedevo solo saltuariamente, anche se, maledetti, neanche si ricordano il mio nome. Ma pressate ancora per le sedie sui banchi? E per le scritte con il bianchetto? La Gualtieri zoppica ancora? E l'Inter come sta andando? (mi sbilancio, ma Sergio si entusiasma e si lancia in tecnicismi calcistici che mi pento di aver stimolato).
I bidelli fanno i bidelli da tutta la vita e hanno un rapporto di odio/amore con il suddetto mestiere che Catullo: lasciastare. Più di amore, credo.

domenica 15 settembre 2013

Torchio.

Qualche mese fa mi chiamavi, mi parlavi due minuti e riattaccavi, io tornavo a guardare il mio libro di fisica 2, prima di rendermi conto di non riuscire a leggerlo; allora lo chiudevo e sdraiata sul letto, occhi spalancati, pensavo a quanto sarebbe stato catartico vederti scoppiare la testa in un torchio.
Ormai il libro di fisica 2 l'ho venduto al Libraccio per 3 euro, non desidero più un tuo decesso violento, ma solo la tua momentanea e pacifica dipartita da un parco Sempione già fin troppo gremito e rumoroso perchè il tuo ingombro di suolo pubblico possa risultare gradito. Apro il mio libro verde come dichiarazione di tregua armata, di cessato discorso, di nonhopiùparole, di sono sfibrata, di faccio come se tu non esistessi. Eppure esisti, e perdipiù non la pianti di toccacciarmi i capelli e di cominciare nuove aride conversazioni, che finiscono inevitabilmente per scontrarsi contro il muro della mia insofferenza. Che libro vuoi che sia? E' un libro verde. Bello, molto bello. E mia zia sta bene e anche lo zio e cucinano ancora delle strepitose parmigiane di melanzane. Cos'ho? Niente. Non sto pensando proprio a niente. Cerco di leggere e sì, forse è meglio che te ne vai se devi continuare a parlare.
Te ne vai. E allora rimango lì, sdraiata sull'erba, occhi spalancati, rendendomi conto di non riuscire a leggere il mio bel libro verde. So che in quel momento stai pensando a come sarebbe estatico guardare la mia testa esplodere in un arcobaleno rosso, frantumata da un torchio.
A differenza della mia però, so che la tua potrebbe non essere solo una fantasia.

venerdì 30 agosto 2013

Avrei voluto tornare presto.

Avevo promesso che sarei tornata presto, poi sui gradini della chiesa ho incontrato un'amica che mi aspettava da un pezzo con una bottiglia di vino in mano e un pacchetto di patatine del discount. Quando ho provato a dire che ho promesso che torno presto lei ha fatto per offendersi e io proprio non volevo si offendesse, quindi ho legato la bicicletta le ho dato un bacio e mi sono seduta anch'io. Le ho detto che per Resistere non è importante agire bene quanto non fare cazzate e credo anche di essermi sentita piuttosto acuta per aver pronunciato questa massima. Non andare a un concerto di Jovanotti, tipo, o non guardare Striscia la Notizia o non buttare rifiuti per strada o non comprare prodotti israeliani: la passività è la sola salvezza ho poi aggiunto (e capirete a che livelli era ormai la mia autostima), il che, a posteriori, sembra proprio un tentativo di giustificarsi mal riuscito. Al che, la mia amica, a cui non la si dà a bere tanto facilmente, mi ha chiesto se fossi ubriaca e io, beh, dico, mi ero appena alzata dal tavolo in effetti. Ma ubriaca no, dai, era un insulto. Nei miei ricordi mi vedo alzarmi e fare quel giochino di basilare equilibrismo che avrebbe dovuto dimostrare la mia perfetta sobrietà, ovvero ginocchio destro alzato e due spanne che lo uniscono al naso: riesce benissimo, dato l'intenso allenamento che ormai mi permette di farlo anche nelle peggio situazioni.
Continuavo a dirmi che sarei tornata presto, che l'avevo promesso, ma nel frattempo arrivavano delle persone che volevano essere intrattenute con la mia teoria della Resistenza, che di minuto in minuto guadagnava proseliti, e io di certo non potevo rifiutarmi di fronte ad un così grande interesse. Sai, il non leggere la Mazzantini, il non insultare il vicino di casa per noia, il non costruire armi di distruzione di massa. Ho parlato anche con alcuni livornesi con il telefono di qualcuno, si chiamavano Fabio e Manuele (forse), con un tono di voce che eufemisticamente potrei definire alto. Poi mi sono accorta che la mia amica era sparita, forse era in chiesa, e che purtroppo anche quella sera non ero riuscita a tornare presto. Ma anche se non era presto sono tornata a casa, ad un certo punto, ed entrando in camera non ho fatto rumore per non svegliare nessuno, perchè anche questo rientra nella pratica della Resistenza passiva.

sabato 24 agosto 2013

Attese.

Diceva esco a fumare una sigaretta e scompariva per delle ore.
Non c'era traccia nel cortiletto di casa mia, eppure ero sicura che non avesse aperto il cancello. Nascosto da qualche parte, tra un oleandro o un albicocco o un vaso, in quei cinque metri quadri di foresta pluviale che ci separavano dalla civiltà metropolitana. Nel frattempo scoppiavano temporali, cessavano altri temporali, sotto un cielo incerto e pigro che asciugava facilmente le risibili pozzanghere che si formavano sul vialetto tra le crepe del selciato; si faceva buio e io sempre lì, seduta sul tavolo bianco della cucina, con gli occhi fissi al di là della finestra. Di tanto in tanto mi addormentavo, mantenendo la stessa posizione, per poi svegliarmi di scatto, rimproverandomi per le mie scarse capacità di sorveglianza. Non avrei potuto fare altro che stare immobile ad aspettarlo, nient'altro aveva senso. Solitamente si tende a credere che è impossibile non pensare a niente: io ero la prova vivente che è invece possibile, anzi talvolta è l'unica alternativa. Ero un vegetale, priva di una qualsiasi vita interiore, essere creato al solo scopo di aspettarlo.
Poi, così com'era scomparso, riappariva e bussava alla porta-finestra. Ma mi hai chiuso fuori?!? Sorrideva con quei suoi dentini perfetti. Cosa ci prepariamo stasera? Ho una fame...
Qual era il suo trucco? Non glielo chiesi mai, non lo capii mai. Finii per considerarlo normale e ad abituarmi a quelle pause dalla mia esistenza, buchi neri senza memoria.
Sorridevo anch'io allora, sollevata. Riprendevo possesso del mio pensiero e, mentre lo sentivo intento nella cucina, cominciavo a leggere a suonare a scrivere, inconsciamente ansiosa di recuperare il tempo inattivo. Per qualche insidiosa controindicazione del relativismo, ero convinta che non avrei potuto essere più felice.

mercoledì 21 agosto 2013

Intelligentissimi.

Eravamo intelligentissimi, quattro fratelli intelligentissimi. Maestri di retorica e insieme matematici, fisici, chimici, nonchè esperti in letteratura e musica classica, lasciavamo gli adulti a bocca aperta, pronunciando sentenze argute dal basso di occhiali a lenti spesse. Eravamo una squadra vincente, inseparabile.
Se prima ci furono le firme di autografi ai parenti (incorniciate nello studio dai più), poi arrivarono i quiz televisivi, i talk show, la mano al Presidente, la copertina del Time. Eravamo destinati a conquistare il mondo, a dirigere la classe dirigente del futuro; avremmo potuto distruggere o ricostruire tutto ciò che era esistito fino ad allora.
Poi, prima che chiunque tra noi varcasse la soglia dei sedici anni, litigammo. La competizione ci logorò, la paranoia s'impadronì della nostra ragione, sospetti di scorrettezze ci avvelenarono i pensieri. La solitudine divenne il nostro mondo. Cause legali si susseguirono per anni sotto gli occhi voraci dei mezzi di comunicazione, cavalcatori di rancori e tensioni: nessuno ci invitava più in televisione per discutere delle fonti di energia alternative, ma solo per alimentare pettegolezzi e dicerie. I parenti iniziarono, uno ad uno, a togliere i nostri autografi dalle pareti; mio zio me lo rispedì addirittura a casa.
Ormai è qualche anno che non ho notizie di qualcuno dei miei fratelli, anche se spero prima o poi di riconoscerne l'espressione, ancora amareggiata e sconfitta, camminando per strada. Non credo che io avrò mai il coraggio di alzare la cornetta, dopo quello che ho osato fare, dopo quello che hanno osato fare.
Io, da parte mia, ho perso ogni curiosità. Lavoro in un ufficio di collocamento dove le ore passano lente e ordinarie, ideali per dimenticare tutto quello che ho imparato nei primi anni della mia vita. Perchè ora voglio solo dimenticare quella presunzione del sapere che mi ha distrutto. Ho sposato una collega, di cui spero di innamorarmi, prima o poi.
Non credo più di essere intelligentissimo.

martedì 23 luglio 2013

La festa.

Il fatto è che la festa finisce, sempre. Lo sanno tutti. La differenza è tra quelli che per quell'ora, quel giorno, quell'anno in cui si festeggia si dimenticano che la festa ha una scadenza, anche se indefinita, e quelli che invece passano la festa nella malinconia, pensando che quella festa finirà, prima o poi.
Che è come dire la differenza che c'è tra quelli che si godono la vita e quelli che pensano a come fare per forse potersi godere la vita nel caso in cui.
Io, ecco, ho paura di far parte della seconda categoria.

mercoledì 3 luglio 2013

Elogio della non scelta (ossia del luglio sardo di qualche tempo fa)

La mia vita allora era scandita da pranzi interminabili e da sieste altrettanto eterne, con giornate dilatate i cui minuti potevano essere distinti uno ad uno. Allora ogni minuto aveva un nome e una sua dignità, o forse era l'infantile indifferenza nei confronti del tempo, ancora ignara dell'angoscia, a farmelo sembrare eterno. Allora ho imparato che non far niente è l'unico modo per non perdere tempo.
Mai più vista una così ampia scelta di nullafacenza. Lotte con mio fratello, gare di corsa in mare, piste di biglie, pesca di granchi con esche improvvisate, piramidi umane vacillanti, dispetti a mia sorella che avevano come unico obiettivo il suo pianto... Per qualche tempo finii persino nel tunnel del sudoku. Erano i tempi in cui ancora si riusciva a leggere un libro per intero senza aver l'ansia di iniziarne un altro contemporaneamente: sotto l'ombrellone l'unica distrazione accettata era il suggerimento richiesto dalla mamma per un cruciverba (niente avrebbe potuto rendermi più orgogliosa). E si leggevano solo romanzi: le notizie dei giornali le ricevevamo filtrate dalle discussioni dei grandi (con effetti altamente nocivi che ancora si ripercuotono sulle nostre opinioni).
Parlavo poco, già allora; ascoltavo tutto, ricordavo tutto. Ma erano tempi in cui questo non aveva importanza, perchè non c'era nulla da dimostrare; eravamo solo dei bambini il cui unico dovere era finire i compiti e non svegliare i genitori durante il pisolino. Fare i tuffi dalle rocce più alte, se la mamma lo permetteva. Nessuna decisione da prendere che non fosse quale gusto di gelato scegliere, nessun talento da sfruttare o da sprecare. Potevamo permetterci di non scegliere, il che era molto (molto) tranquillizzante.

domenica 12 maggio 2013

Ma l'avete sentita l'ultima...

Il discorso langue. Siamo al secondo e la rassegna sugli ultimi film usciti è già stata ampiamente dibattuta, e così i programmi per le vacanze estive, i pettegolezzi sui vicini di casa e persino le condizioni meteorologiche (immancabilmente pessime). Regna l'imbarazzo a tavola, il disagio s'insinua tra le portate e solo i complimenti sul cibo riescono a celare il silenzio incombente. Ecco che allora un invitato, dal fondo del tavolo, timidamente prende la parola e inizia: "Ma l'avete sentita l'ultima di Berlusconi?", il che significa una sola cosa: salvezza. Un'altra bella serata in compagnia. Il convitto si rianima, grida indignate e liberatorie si levano da ogni parte, il più cauto tra i presenti tiene orazioni infarcite di slogan frutto di anni e anni di letture dei titoli di "Repubblica", i vicini si fomentano a vicenda ricordando episodi che conoscono a memoria e che ripetono uguali da vent'anni (con qualche rubacuore in più, qualche Craxi in meno). L'argomento "Berlusconi" ha un effetto catartico sugli animi dei salottieri di sinistra: è una certezza, l'unica che rimane agli elettori del Pd, tra crisi economiche che nessuno è in grado di spiegare chiaramente e subdoli franchi tiratori, l'unico punto su cui si troveranno sempre d'accordo e che quindi placa le loro coscienze. C'è chi potrebbe elencare l'intera sequenza di processi, condanne e prescrizioni che l'hanno riguardato e chi si limita a deprecare le sue barzellette sulla Bindi, ma di sicuro tutti hanno almeno un motivo per odiare il Silvio e quindi per sentirsi parte di una grande sinistra italiana di cui il Silvio è appunto il collante.
D'Alema ringrazia, Santoro ringrazia, gli invitati ringraziano, soddisfatti del loro fallimento.

mercoledì 1 maggio 2013

Non c'è niente da capire.

Non sempre ciò che non si capisce nasconde grandi verità.
Forse non ti capisco semplicemente perchè, dietro quell'aria scorbutica all'apparenza pensosa, non c'è niente da capire. Nessuna crisi esistenziale, nessun dramma in famiglia, tanto meno guai con la legge: nei tuoi occhi profondi si condensa la noia, il mal di vivere, unita ad una certa supponenza che ti fa osservare gli altri dall'alto di una poco condivisibile superiorità morale. Dici che vai a letto perchè il lavoro ti affatica, ma la realtà è che le giornate sono troppo lunghe e le ore in eccesso ti darebbero troppo tempo per riflettere su te stesso e sul tuo stile di vita. Il tuo ego smisurato ti ha insegnato che mettere in discussione te stesso è inaccettabile; a ogni critica hai risposto spavaldo che tu sei fatto così e ora, intrappolato in questa certezza inattaccabile, non sai a chi dare la colpa per il fallimento della tua esistenza. Ai passanti, di solito, o agli avvocati, ai politici, ai commessi del supermercato: una congiura globale ordita ai tuoi danni. Trovavo divertente, all'inizio, l'insulto libero dedicato ad ogni essere umano sotto tiro, quando credevo che quegli attacchi gratuiti e velenosi fossero indice di un alto spirito critico e non di una frustrazione congenita.
Solo quando dietro alle tue assenze ho colto l'egoismo, dietro ogni tuo gesto un amore per te stesso ingiustificabile (perchè l'amore di sé non è mai giustificabile), solo quando dietro ai tuoi silenzi ho colto un vuoto di pensieri ho realizzato che a volte le cose sono più semplici di come sembrano.

Non ti inorgoglirai più sentendomi dire che sei troppo complicato e faccio fatica a capirti.
Non ti cullerà più il pensiero che quando vorrai stare da solo io ci starò male.
Io starò male, ma tu non lo saprai.

venerdì 26 aprile 2013

Amatori.

E' un periodo in cui cerchi di incastrare i vari pezzi della tua vita e ne esce fuori un puzzle deforme, con pochi buchi e molte sovrapposizioni di bordi; il risultato è un manifesto del neo-astrattismo colorato a pennarelli scarichi. Vorresti avere il mio tempo, vorrei avere i tuoi problemi, di cui parlare con un certo maturo fatalismo; invece tra le mie carte ho solo un cinema, un seminario sui diritti delle donne, un parco soleggiato in cui disquisire su quanto si è in ansia per l'esame di giugno.
Non si può rinunciare a niente, comunque, nemmeno alla corsetta serale o al ritrovo in pizzeria con i compagni delle medie, nemmeno all'avvocato o alla dichiarazione dei redditi. Ogni tanto sono esclusa dal tuo disegno, ogni tanto m'incazzo ogni tanto no. E quando un amico mi offre una birra sei tu che ti incazzi. Silenzi. Allora mi chiami e dici che mi pensi, salvo poi, imbarazzato, pentirti subito del cedimento e concludere con un laconico ciao ci sentiamo domani baci. Ma domani chissà se risponderò o farò finta di non aver visto la chiamata, per poi chiamarti pensando di sottolineare che ero intenta a fare altro, prima, ma probabilmente tu avrai il cellulare spento e io passerò il pomeriggio a interrogarmi sul perchè tu avessi il cellulare spento. Il fatto è che mi sono gettata a capofitto in una stremante partita di scacchi, senza rendermi conto, nonostante le frustranti sconfitte contro mio fratello che hanno segnato la mia infanzia e che avrebbero dovuto ammonirmi a non inoltrarmi in quel campo, di non avere il carattere per competere. E neanche tu ce l'hai: un'agguerrita partita tra amatori, che si sventrerebbero pur di dimostrare la propria resistenza psicologica. Degli amatori, per l'appunto. Degli amanti.

domenica 7 aprile 2013

Le ragazze non piangono mai.

Ragazze salgono in cima alla montagnetta e scrivono sui muretti frasi indelebili che nel giro di qualche anno saranno lavate dalla pioggia, l'interminabile pioggia, e nessuno se ne ricorderà più. Parole di abbandono, sempre uguali da quando hanno tredici anni, perchè l'abbandono non cambia mai e loro sono sempre state abbandonate. E' un rito ormai. Eppure non piangeranno. Ameranno in silenzio, con una coraggiosa ostinazione, e poi smetteranno di farlo, senza tanti proclami o annunci pubblici.
Le ragazze non piangono mai perchè sanno che non c'è dolore con cui non si possa convivere: la disperazione si supera solo quando ci si abitua alla sua presenza subdola.
E quando sarà tempo di biciclette pitturate e corse sui cavalcavia, di vestiti a fiori, Clash, biblioteche e programmi d'esame, allora si accorgeranno che quel coinquilino doloroso, quel pensiero insistente, è ormai quasi un fratello, un elemento insostituibile, un'esperienza con cui confrontarsi in ogni momento della vita. Anche nella gioia, anche il 16 agosto sotto il sole spagnolo, anche quando un'altra persona le costringerà intere serate chiuse in camera a scrivere lettere d'amore. Il comitato degli abbandoni avrà sempre un posticino d'onore nel magma della materia cerebrale, con il compito di giudicare, supervisionare, paragonare. Le ragazze si lasceranno andare di nuovo, sbaglieranno, si illuderanno e saranno di nuovo abbandonate. E sarà la cosa migliore che potrebbe capitare.

martedì 26 marzo 2013

Ti senti sola con la tua libertà?

Me l'avevi promesso, che quando avrei finito gli esami mi avresti portato al mare.
Abbiamo una macchina nuova, solo un po' usata, e uno scatolone pieno di cd equamente diviso tra i miei cantautori tristi e i tuoi successi degli anni 80. Come prevedibile il diritto di chi guida prevale sempre, così finisce che per dieci giorni ci si ascolta solo Depeche Mode e similari.
Ci vorremmo fermare in ogni posto ma va a finire che, per non dover scegliere o più semplicemente per pigrizia, ci fermiamo solo per pisciare o mangiare, guardando la spiaggia dalla piazzola della statale dissestata. Il tempo di un autoscatto storto con i capelli spettinati dal vento e siamo di nuovo sulla strada.
Il profumo di mediterraneo si mescola ai nostri odori attraverso i finestrini semi-aperti e si deposita sul cruscotto, sui sedili, sugli occhiali da sole trovati sul traghetto, sui cellulari scarichi, insieme alla polvere e alla sabbia di un'estate greca. Non leggiamo il giornale da una settimana e forse anche l'Italia è crollata sepolta dai debiti: chissà che non riesca a diventare scarna gialla ingenua povera selvaggia come l'Ellade. Quando la disoccupazione salirà al novantotto per cento, prima di morire di fame o di stenti, obbligati ad una vacanza forzata, gireremo l'Italia tra autostop e piedi. Il lavoro debilita l'uomo, lo studio lo frena: bighellonare è il solo modo di amare il tempo.
Tuttavia ritorneremo. A debilitarci, a frenarci, in inferni artificiali a pochi passi dalla metro. Per adesso siamo soli, con la nostra libertà.

La nostra camera dà sulla baia, un centinaio di metri sotto di noi. Da lì sembra deserta. Mangiamo una fetta di torta che la padrona di casa (un reticolo di allegre e monumentali rughe che infondono saggezza e serenità) ci offre e scendiamo di corsa le millemila scalette di pietra che ci separano dal mare. Schiocco di infradito, tonfo di scarponi.

E riderai
quel giorno riderai
ma non potrai
lasciarmi più

Il bagno, poi fa freddo, ci asciughiamo a vicenda.
Credimi che non sfotto quando rido.
Credimi che non sono incazzata quando ti guardo seria.
Risaliamo per cena, prima che faccia buio.

domenica 17 febbraio 2013

Xenia.

Ho freddo.
Forse ho la febbre, ma non posso saperlo perchè il termometro è rotto.
Forse me l'hai passata tu, regalo di addio, o forse me la sto solo immaginando.
L'ultima botta di disperazione sembra sempre la più insuperabile, l'estrema forma di morte spirituale, invece ne arriva sempre un'altra in grado di mettere in discussione le sconfitte precedenti. Anche con la felicità vale lo stesso, ma non ci si fa caso. La felicità appare come un'astrazione il più delle volte.
Tu hai il cellulare spento e sei lontano, fa freddo, una raccolta di poesie nichiliste sta. annichilendo le mie ultime energie e io vorrei solo mettermi a letto, alle sette di sera, e svegliarmi domani, per guardare le cose con più distacco. Da domani si riparte da capo, si torna a combattere e a dare peso a cose che non ne hanno, ad organizzare il tempo con criteri diversi dagli orari del tuo bar.
Tutto ciò assomiglia terribilmente ad una fine. E' così scontato, per Dio.
Niente di grave hai detto. Hai ragione, tutto è relativo. In fondo non ho un cancro al polmone e mio fratello non si è suicidato sotto le rotaie del tram. In fondo non dovrei lamentarmi considerato che ogni tre secondi in qualche lontana parte del mondo muore un bambino e che anche nei paesi civilizzati ci sono persone che sono costrette a dormire sotto i ponti. Ok, ma chissenefrega. Anche questo è grave e per il momento è la cosa più grave che mi potesse succedere.
Sono gravi i ricordi random che m'impediscono di concentrarmi, così come quei sogni così confusi in cui compare sempre lo sguardo vigile di tuo padre. E' grave il disegno persecutorio che sta dietro tutto ciò. Ossessione. Non serve l'intelligenza, che tu sostieni io abbia a sufficienza, per capire. Non basta, anzi a volte è deleteria. Servirebbe quel cinismo che di tanto in tanto m'illudo di avere. O una cultura meno approfondita della Nouvelle Vogue francese.
E poi, poi davvero mi riprenderò. Tornerò ad affidarmi a qualche forma di dipendenza umana, l'unica in grado di tenermi in vita. Ma, lasciamelo dire, adesso per me tutto ciò ha il retrogusto della tragedia.

La primavera sbuca col suo passo di talpa.
Non ti sentirò più parlare di antibiotici
velenosi, del chiodo del tuo femore,
dei beni di fortuna che t'ha un occhiuto omissis
spennacchiati.

sabato 9 febbraio 2013

Magnolia.

Come in quel film in cui i due si amano e si rotolano, abbracciati sulla terra di quell'isola abbandonata, e ridono e lei ha dei capelli neri lunghissimi e poi da una nave sbarca una mandria inferocita di uomini in bombetta e frac che li divide e li allontana, tra le mura sporche della Roma imperiale. Si ritroveranno, alla fine, ma non sarà più lo stesso. Così ci divideranno e poi ci ritroveremo, ma non sarà più lo stesso. Saranno le incomprensioni, i rancori, i cellulari scarichi, le campagne elettorali, le microfrecciatine, le attese della metropolitana, i diciottesimi, le verifiche di fisica, gli scontrini, il raffreddore, gli amici invadenti ad allontanarci. Potremmo essere i principali soggetti di uno studio sull'incomunicabilità nella società contemporanea.
Allora ci diranno che non ci sono i presupposti perchè duri un giorno in più e noi, stanchi di combattere, ci arrenderemo. Ci convinceremo che non è mai stato amore. Rimarrà un quaderno rosso dalle pagine spesse, una poesia paternalista, un disco di Chet Baker, delle foto sfuocate in qualche città emiliana, delle pagine di diario scritte fitte in una calligrafia indecifrabile ai più. Un braccialetto, un crocifisso consacrato da esibire al collo. E ci ricorderemo solo dei baci, quelli che si assomigliano in tutte le relazioni. O di quella notte in cui mi avevi trattata male ed io ero partita, con in cuffia un cantautore barbuto e trasandato, per una fuga disperatamente solitaria in bicicletta, fino a perdermi nell'estrema periferia nord di Milano e, umiliata, a svegliarti dal sonno per farmi strada nella nebbia. O delle altre isterie, mancanze, scenate in mezzo alla strada.
Il resto saranno chiacchiere da bar con gli amici di sempre, quelli che quando incombe la tristezza ti offrono un doppio giro di Slalom e che sanno sempre illuderti che quello non sia un periodaccio, finchè ci sono i doppi giri di Slalom offerti dagli amici.
E' un periodaccio - mi dirai- e non voglio darti altro dolore. E' giusto che vada così -risponderò io-, aspettavo solo che tu avessi il coraggio di parlarmene. Così mentiremo entrambi, convinti di farci del bene a vicenda, annacquando la nostra anomalia in un finale simil-drammatico da fiction televisiva di serie B. Non ci chiariremo mai più, poi, perchè ce l'avevano detto tutti che sarebbe finita così e noi, in fondo, lo si presagiva anche quando non c'erano segnali che lo presagissero.

Quando succederà, per favore, mandatemi giù una pioggia di rane rigeneratrice, che riporti un po' di ordine nella surrealtà dell'esistenza. Come in quell'altro film.

domenica 27 gennaio 2013

Certe domeniche.

Ci sono certe domeniche in cui mi chiami presto e ti stupisci di trovarmi già sveglia, tra Gocciole, caffè e il giornale di qualche giorno prima, Radio Popolare che gracchia alle mie spalle. Stai uscendo anche tu a fare colazione e a comprare il giornale; fa freddo dici, nonostante il mercato si sforzi di riscaldare l'aria con il suo agitato vociare e c'è un sole che sembra maggio. C'è un sole che sembriamo quasi felici. E' gennaio, lo studio mi tedia e il lavoro ti tedia, i rapporti con le rispettive famiglie si fanno sempre più distaccati, ho perso il mio anello preferito e tu non hai soldi per ricomprarmelo, eppure sembriamo quasi felici. Alla faccia della crisi, delle manovre finanziarie, dei cassintegrati, degli esodati, di quelli che si dannano per qualche causa giusta ma faticosa, ci concediamo questo lusso. E questo pomeriggio andremo al parco a perdere tempo o a perdere qualche grammo di peso con una corsa. Poi ci guarderemo negli occhi e non sapremo cosa dirci, perchè siamo un po' autistici, un po' timidi, un po' increduli, un po' troppo diversi ed inconciliabili. Allora tu ridi e io mi sento presa per il culo e m'indurisco, ma poi rido anch'io, perchè alcuni momenti sono troppo imponenti per essere spezzati da una paranoia.
Mi chiami presto, certe domeniche, proprio mentre elaboro un principio di volontà di accingermi a studiare e allora mi butto sui libri con uno stoico senso del dovere che non mi appartiene, decisa a finire prima di vederti. Mi metterò quel maglione marrone che ti piace tanto, poi, e ci libereremo di tutti i rancori, i ritmi frenetici, le incomprensioni, i problemi accumulati in settimana, consapevoli entrambi che la tregua avrà durata effimera. Per una volta il presente vince la paura.