domenica 23 dicembre 2012

Normalizzazioni.

Mi chiedono se sto meglio, adesso che mi sono normalizzata. Adesso che ho smesso di litigare con le vecchiette sui tram, che mi capita meno spesso di trovarmi in locali semivuoti a cantare a memoria i pezzi del gruppo di spalla, adesso che ogni tanto sorrido più di una volta al giorno e non ho le scarpe bucate. Si dirà che ero in guerra e mi sono arresa, spalle al muro. Io dico che, più che arrendermi, la mia battaglia l'ho proprio persa: niente tregua, niente armistizio, solo una strage di certezze ed egocentrismi. Perchè a forza di sentirmelo dire, forse mi ero davvero convinta di essere speciale, di avere qualcosa da dire, di avere uno sguardo più lucido del comune sulla realtà: ecco, la scoperta (e l'accettazione) di non avere niente più degli altri mi ha pacificato il cuore in maniera definitiva. Era una guerra invincibile e senza senso dove i mulini a vento erano tutti quegli ostacoli che impedivano alla mia individualità di espandersi. Ero livida, allora, nervosa, mi sentivo incompresa perchè ancora illusa che ci fosse qualcosa di più da comprendere, oltre al visibile, in me e nel resto del mondo. Ingenuità.La spocchia della giovinezza derivata da una pretesa superiorità è uno dei più atroci crimini contro l'umanità di cui andrebbe rimproverato il Signore; il più atroce di tutti è però quella spocchia propria di chi, per il fatto di aver visto un paio di film in bianco e nero più della media, è convinto di saper interpretare meglio gli uomini. Brutta malattia, riscontrabile soprattutto in certi ambienti della sinistra salottiera.

domenica 2 dicembre 2012

Identici e lontanissimi

A volte ti sentivo vicino, quando non eri con me, e compivo ogni gesto sentendo il tuo respiro sulla pelle. Avrei voluto urlarlo, piangerlo, inciderlo su un disco, disegnarlo sulle nuvole di fumo, persino riderlo se l'italiano me l'avesse permesso; avrei voluto racchiuderlo in barattoli, quell'infinito, per poi venderli, sfondarmi di soldi e terminare la mia esistenza su qualche isola sperduta dell'Oceano Pacifico. Vendere l'infinito: mica male, roba da citazione sui libri di Storia.
Eppure non riuscivo. Niente urla, pianti, incisioni, disegni, risate, nè, tantomeno, soldi. Rimanevo così, sdraiata a pancia in su sul letto, a fissare il soffitto. Ti sentivo dentro come un misterioso nuovo organo, aggregazione di cellule morte e resuscitate; gli anticorpi non erano riusciti a bloccare la creazione di quel corpo estraneo ed ora era parte di me. Si contraeva con così tanta pervicacia da non lasciarmi mai indifferente, tanto che il suo pensiero occupava ormai gran parte del mio tempo: mi faceva sorridere, a volte stare male. Sentimento è insieme ampliamento ed annullamento di sè, surreale ed incatalogabile, malgrado gli sforzi, le definizioni date a tavolino, le semplificazioni. Roba densa, totalizzante, vischiosa.
Altre volte, invece, eri lontano e grigio nella tua piccolezza. Meschino come tutti gli esseri umani, meschino come me. Allora urlavo, piangevo, incidevo, disegnavo, ridevo, riuscendo nella complicatissima impresa di esprimere il Vuoto in tutti i modi possibili. E poi mi tornava finalmente l'appetito ed ingurgitavo di tutto pur di riempire lo spazio lasciato libero dalla scomparsa di un organo vitale.

lunedì 5 novembre 2012

Bandiera bianca.

Al termine della notte, poi, mi ritrovavo sempre su qualche autobus notturno diretto a Molino Dorino, carico di alcol, giovinezze sprecate, volumi delle cuffie improponibili che suonavano canzoni altrettanto improponibili. Sola. Come i miei amici, già sotto le coperte da un pezzo; loro, quelli di porta romana. Una compagnia di persone sole che si lamentavano con gli amici della propria solitudine in un deprimente processo di commiserazione inconcludente. Cristo se ero triste. Anzi, la tristezza era un sentimento troppo nobile ed intenso per la mia situazione; così svogliata, annoiata, stonata; a tal punto brutta, con quei capelli crespi e gonfiati dalla pioggia, che per la prima volta mi trovavo a non avere paura di essere violentata in qualche anfratto buio. Persino un maniaco mi avrebbe rifiutata. Niente peruviani che eccitassero l'elettorato leghista sbattendosi le figliolette diciassettenni degli onesti padri di famiglia padani, per quella notte.
Ero annoiata, dicevo, piena di tempo da riempire con attività a cui ero indifferente, piena di giorni che non passavano più o che si rincorrevano frenetici perchè saturi di futilità. Ecco allora la birretta al parco, le telefonate fiume, i pomeriggi sonnolenti sul libro di fisica, le passeggiate in centro, i cineforum ossessivi: tutto per il gusto di fare qualcosa, aggrappati a quel desiderio di ammazzare il tempo, già in sè un concetto disumano. Tutti impegnati a darci un tono, eravamo, tutti con le stesse insicurezze nascoste sotto uno stantio velo di fondotinta. Non m'indignavo neanche più ormai, perchè ci ero dentro fino al collo, intenta a sguazzare in quella melma di relazioni sociali ipocrite ed affettate. Stanchezza. Compassione per l'umanità tutta. Intravedevo quelle debolezze ed ero consapevole che la mattina dopo avrei agito per rimuoverle dalla mia coscienza, per continuare a trascinare la mia esistente in una parvenza di serenità. Il che può essere riassunto nelle parole: abbiamo perso.

mercoledì 26 settembre 2012

Venezia.

Non riuscivo a pensare, quella mattina, e camminavo per inerzia spinta dal vento, nelle gambe una lentezza inedita. L'udito attutito, il mal di gola, il senso di nausea erano le uniche testimonianze di una serata iniziata e finita male, serata che altrimenti avrebbe potuto benissimo appartenere ad un'altra esistenza, circondata da buchi neri e abissi della memoria. Il tutto rendeva il proferire parola un'impresa titanica. Anche i miei compagni stavano in silenzio: non c'era molto da dire. Il cielo delle undici di mattina era scuro e si preparava a scatenare un'apocalisse inutile, uno spreco di energie e di ombrelli di plastica usa e getta. Cosa ci eravamo venuti a fare a Venezia? Le previsioni meteo dicevano che il tempo sarebbe stato bello, invece le mie scarpe di tela bucate non riuscivano ad impedire ai miei piedi di congelarsi. Non mi e' mai piaciuta, poi, Venezia. Chi cazzo ha avuto la malsana idea di passarci quella domenica? Intanto un nuovo amore stava per nascere in me, ma mentre fioriva lo guardavo già con nostalgia, con distacco, come se avesse smesso di appartenermi prima ancora di venire alla luce; un amore tutto vituperato e strattonato, perforato dall'insicurezza e cucito senza esperienza da consolazioni a poco prezzo. Un aborto. Dove sono i veneziani, dove si nascondono, tra queste masse di asiatici dalle macchine fotografiche lunghe due metri e dal tono di voce nasale che definir fastidioso sarebbe un eufemismo. Un feto esanime, un fiore morto nel mio stomaco. O forse era solo il Martini scaduto del giorno prima che fermentava nelle mie viscere, già affollate da questioni di dubbia e inutile risoluzione, come quanto debba durare un abbraccio perchè possa essere ricordato o come evitare di rispondere non so ad ogni domanda impegnativa.
Venezia era una città triste e l'unica cosa che avrei voluto, allora, era andare a casa, gettarmi sul letto e non alzarmi per una settimana.

giovedì 6 settembre 2012

Sono un tipo particolare.

Voglio andare a studiare all'estero. Leggo l'Internazionale. Sono vegetariano. Cito Pasolini appena ne ho l'occasione. Una casa editrice indipendente sta per pubblicare le mie poesie. Non guardo i reality show anzi non guardo proprio la televisione. Non ho la televisione ma guardo i programmi che m'interessano online. La Rai non fa servizio pubblico. Non sopporto Fazio ma i suoi ospiti sono sempre interessanti. La Littizzetto e' un genio. Guardo i film con il proiettore. Ho cancellato il mio account da facebook e ora ho millemila followers che seguono i miei millemila tweet al minuto. Su twitter seguo Umberto Eco, Gad Lerner e Francois Hollande. Mio nonno era un partigiano. Faccio volontariato alla mensa dei poveri. Le prossime elezioni si giocheranno in rete. Bevo solo birra artigianale. La domenica mattina faccio il brunch. Ho organizzato l'autogestione del mio liceo. A questa citta' serve un programma di edilizia popolare. A quel bigotto di Manzoni preferisco Leopardi. La mia bicicletta e' costruita artigianalmente. Fabio Volo non sa scrivere ma la Mazzantini e' una delle piu' grandi scrittrici italiane. Ho la tessera dell'Anteo. Ho tutte le tessere Arci da dieci anni a questa parte. Sabato sera sono andato ad un reading di poesie con accompagnamento elettroacustico. Non mi sono mai arreso alla fotografia digitale e uso la macchina fotografica a pellicola di mio zio. Ho comprato al mercatino dell'usato delle Clarks degli anni Settanta. Sono stanco della citta' e vorrei andare a vivere in campagna. Il Thailandese e' il mio cibo preferito. So a memoria il numero di telefono di Radio Popolare. Sono un social smoker. Intrattengo una corrispondenza epistolare con un mio ex compagno delle medie che e' andato ad abitare in Peru'. Indosso le Camper anche per giocare a pallone. Spinoza.it e' una delle piu' argute voci sarcastiche in Italia. L'agopuntura fa miracoli. Mentre i miei amici sciano io preferisco fare delle camminate in montagna da solo. Ho scritto la sceneggiatura di un cortometraggio.

sabato 18 agosto 2012

L'anello di congiunzione tra Orazio e l'Esselunga

Non si è mai chiarito perchè ci dovessi sempre andare io a comprare il vino all'Esselunga. Non mi sembra giusto, a ben pensarci.
Quei giovedì autunnali, verso le sette, nonostante mi mancassero ancora 20 pagine da leggere di latino, chiudevo il libro, piazzavo una scusa qualunque a mamma e uscivo a scongelare la bicicletta. Tanto la mattina avrei avuto venti minuti buoni di metropolitana per studiare, pensavo io. Tanto non mi avrebbe mai interrogata, dicevi tu.
Cinque minuti per andare, venti secondi per identificare la bottiglia tra gli scaffali etilici, due minuti per salutare la prof delle medie che passa la vita lì: tutto regolare. Dopo un paio d'ore in fila alla cassa e le duecento conferme al telefono che "sì, ceno a casa", ero fuori, con la bottiglia che metteva a dura prova la resistenza della mia borsa e della mia spalla.
Quei giovedì sera mi passavi a prendere all'incrocio e andavamo a sentire qualche cantautore triste; io portavo il vino e tu le birre, questi erano i patti. Si beveva tutto prima di entrare, in macchina, più perchè ci piaceva l'idea che per l'effettiva mancanza di moneta per una birra alla spina. Si fanno delle cose stupide ogni tanto, giusto perchè a volte sembra che l'unico modo di non pensare al domani sia fare delle cose stupide e senza senso. E io al domani avrei preferito non pensarci, ma sorsata dopo sorsata l'immagine di Orazio che si riscalda al fuoco guardando la vetta del monte Soratte cominciava a rimbalzarmi nella testa. Era un periodo in cui studiavo sempre latino letteratura, non scherzo. Naturalmente non sarei mai stata interrogata in latino letteratura; era raro che qualcuno mi interrogasse, in generale. Peccato, Orazio mi piaceva davvero.
La verità, penso, è che mi faceva piacere andare a prendere il vino all'Esselunga. Mi lamentavo sempre, è vero (non sia mai che faccia qualcosa senza ostentare la giusta dose di svogliatezza), ma lo facevo con quella scarsa convinzione che si riserva alle decisioni già stabilite dall'abitudine e che la stessa abitudine ha reso un dolce rituale.

giovedì 24 maggio 2012

La mia passività di fronte ai finestrini.

Non guiderò mai un aereo, l'esame della patente è troppo difficile da passare e mi vengono i crampi alle gambe solo all'idea di pedalare per cinque minuti di fila. A me piace essere trasportata. L'asfalto corre sotto di me e io sono ferma; è l'unica occasione in cui le mie paranoie me lo concedono, di stare ferma e di non dovermi preoccupare di niente. Davvero, dico ai miei sensi di colpa, io vorrei fare qualcosa, ma proprio non posso, impegnata come sono a reggermi al manubrio della bici o al lembo di una maglietta; è già tanto se il vento non mi sfila le lenti già secche da un pezzo. Anche in treno e in macchina di leggere non se ne parla, se non voglio che mi si riproponga la pasta che ho ancora sullo stomaco, figurarsi in metropolitana, quando il viavai di simpatiche ed educate vecchiette impedisce il mantenimento di una posizione eretta stabile. Allora posso finalmente abbandonarmi passivamente al film che propone la realtà, a volte con tanto di colonna sonora: le case che sfrecciano grigie o colorate o tristi abbandonate con i terrazzi con i fiori e i portoni i tetti a punta le finestre piccole le antenne, e chissà chi ci abita, chissà come sarebbe stato se fossi nata lì. E le persone come sono stressate, altre incredibilmente felici sorridono agli sconosciuti e salutano il fruttivendolo il giornalaio e Abdul che vende accendini, anche se non comprano niente. Mi piace anche mangiare i chilometri nell'Italia delle campagne, gialla verde grigia e azzurra, a strisce, e vorrei fermarmi in ciascuna di quelle fermate blu dai nomi esotici, perchè tutto passa troppo in fretta e ho sempre la sensazione di perdere qualcosa di fondamentale per strada che non riuscirò più a recuperare.
Mi piacerebbe essere bloccata in questi oggetti di ferro per ore e guardo senza entusiasmo l'avvicinarsi della destinazione; non posso neanche decidere di farmi trasportare più di quanto dovrei, e poi tornare indietro, perchè altrimenti i miei sensi di colpa comincerebbero a martellarmi la testa, ricordandomi quante cosa avrei potuto fare in tutto quel tempo. Schiavi della fuga del tempo, ecco cosa siamo.
Mi godo dunque questi brevi sguardi sulle esistenze, perse nei meandri di un paese o nascoste nei vicoli, cercando sempre di prediligere le mete più remote, che possibilmente attraversino tutta la città o tutto il paese.

lunedì 7 maggio 2012

Ricordarti di andare a votare.

Stamattina ti ho chiamato per ricordarti di andare a votare.
La voce impastata suggeriva inequivocabilmente che ti eri appena svegliato, ma tu imperterrito continuavi a sostenere che eri sveglio già da un po': avevi già fatto una lavatrice e messo sul fuoco la moka.
Erano le nove e ti ho svegliato per ricordarti di andare a votare.
Sono dieci anni che non vado a votare, lo sai.
Questa volta potresti farlo, dico, è emozionante non trovi? Sapere che gran parte dei cittadini prima di andare a lavorare va in una scuola elementare, tra i cartelloni colorati i sottobanchi ripieni e tutto, a scegliere con una X. E poi attende con ansia febbrile le proiezioni attaccato alla radio. Davvero, dico, non è emozionante? L'odore delle urne, la giovialità degli scrutatori universitari. Riesci anche ad intascarti la matita se sei abbastanza scaltro.
Ridi. Non vai a votare per i soliti motivi, che sono sempre quelli; quelli di quest'estate seduti sul gradino in quella piazzetta vuota, con una birra in due. Quelli per cui la gran parte dei cittadini prima di andare a lavoro dorme e non frequenta scuole elementari.
Potresti farlo invece, come atto d'amore per la tua città: per la sopraelevata che dà sul porto, per la coda davanti all'acquario, per le focaccerie sul mare, le barche appoggiate ai moletti, il Pinelli, il bar aperto ad ogni ora dietro la stazione. E lo sai che io, a quel buco di culo della tua città, voglio bene più perchè ci sei tu che per la città stessa.
Hai ragione, ci vado a votare questa volta... Voto l'amico di Grillo.
Inutile, a questo punto, provare a convincerti a non andare a votare.
Del resto ti sono sempre piaciuti i venditori di certezze facili. Come me ad esempio.
Ti attacco in faccia irritata, come tutte le volte, negli ultimi mesi. La Vodafone ringrazia per l'ennesima telefonata chilometrica.

domenica 6 maggio 2012

Il tuttologo.

E' il tipo che s'intromette con disinvoltura in una discussione sul Dogma 95 e in una sull'angiosarcoma, passando per i commenti sul reattore nucleare a fissione e sull'importanza del Romanticismo nella formazione del sentimento nazionale. Egli si trova sempre a suo agio, in ogni situazione, basta che abbia la possibilità di dire la sua e di esibire le sue presunte conoscenze.
La sua abilità è quella di ridurre la portata dei problemi a frasi ad effetto, citazioni (che spesso non hanno nulla a che fare con l'argomento), sentenze vaghe e vuote, soluzioni semplicistiche che sfiorano la demagogia. Così di fronte ad una conversazione rammaricata sullo sfacelo della politica interviene con un sempreverde largo ai giovani (naturalmente valido anche per le proposte musicali e per il problema della disoccupazione); nel mezzo di una discussione su un film che non ha visto ci tiene a precisare che adora quel regista ma i primi film erano migliori; in caso di dubbio dei suoi interlocutori non perde occasione per bluffare e dirsi certo che le cose stanno così. E' un uomo sicuro di sè, il tuttologo, non c'è che dire, lo si capisce dal modo in cui proferisce parola, come se dalla sua bocca colasse oro.
Il profeta dei nostri tempi non ha rapporti diretti o telefonici con Dio, ma ha come unico datore di lavoro il Senso Comune, che gli prescrive le frasi giuste (ed innocue) da declamare.
Il tuttologo esercita il diritto di parola in modo improprio, sconsiderato, dannoso per i suoi interlocutori e per l'intera umanità. In un mondo più giusto, insomma, la tuttologia dovrebbe essere un reato perseguibile per legge.

giovedì 19 aprile 2012

Meteoropatia.

Sintomi: stanchezza, misantropia, mal di testa, depressione, istinti omicidi, nervosismo, insonnia.
Pioggia e cielo fosco mandano in coma le endorfine, i nervi si gonfiano, le unghie si sbriciolano umide.
Ho iniziato a guardare il meteo con un'ansia senile, da quando mi sono resa conto che nella maggior parte dei casi la causa del mio malessere non risiede in me, ma in questa città di merda nata con l'ombrello, grigia triste piovosa. Allora preferisco saperlo prima quando sarò intollerante (e intollerabile), quando non potrò fare a meno di trattare con sufficienza qualsiasi essere umano mi rivolga parola (non tralasciando di accanirmi contro la mia, di persona), così da poter avvertire i conoscenti, non compromettendo fantastici rapporti che si consumano sotto il sole: "Ok, da adesso fino alla fine di questa tornata di emergenza maltempo non rispondo delle mie azioni nè delle mie parole. Se mi capiterà di dirti che il racconto a cui ti sei dedicato tutta la stagione è mediocre, non lo penso veramente, e lo stesso vale se ti dirò che sei ingrassato o che tua madre si veste da puttana o che non ti saresti meritato di vincere quella partita".
Non lo penso veramente, solo mi viene un'irrefrenabile voglia di far male alle persone e un'irrefrenabile sintonia con certi concetti simil-nichilisti. E' così miserabile, poi, che il seme della mia cattiveria abbia terreno fertile solo in determinate condizioni atmosferiche, in balia di una Natura così ingombrante.
Ecco, io questo disturbo l'ho interpretato come meteoropatia. Forse non è il termine adatto ma, in mancanza di una diagnosi più accurata, mi accontenterò di questo.

mercoledì 18 aprile 2012

Padania.

Tu puoi quasi averlo, sai, ma non ricordi cos'è che vuoi.


Un cancello aperto sul Nulla e un vialetto di cemento scavato nella neve grigia.
Tutto qui: abbastanza, per una terra di nessuno, una terra che non esiste.
Il Nulla su cui è affacciato il cancello si sta mangiando tutto, come in quel libro che leggevo da piccola, dove per salvare il mondo dall'espandersi del Nulla un bambino incredibilmente coraggioso affronta 380 pagine di avventure. Ma da queste parti niente eroi o draghi che sputano fuoco o indovinelli da risolvere o bacchette magiche. Qui vengono fagocitati campi di grano e balle di fieno, treni anonimi che portano addii tristi e sussurrati correndo su cavalcavia pericolanti, bordi di autostrade, casolari in pietra abbandonati monumenti della contemporaneità, rimborsi elettorali nelle sezioni di partito. Ogni cosa si lascia morire nell'indifferenza, nell'apatia, sotto una pioggia leggera e costante. Gli anziani animatori del bar sotto casa ormai al binomio cicchetto-briscola preferiscono La Vita in Diretta seduti sul proprio divano. E anche il derby è più comodo vederlo su Sky, in uno stato di semi-assopimento.
Nell'area più produttiva d'Italia hanno smesso tutti di lavorare, tra un operaio in cassa integrazione e un imprenditore che si spara in testa. E intanto c'è chi ha ancora la forza di sputare odio da palchi verdi, di pulirsi la coscienza facendo nuove promesse, adducendo scuse, armandosi di retorica. Per quanto la fine, di questa Padania, sia vicina, è impossibile intuire un nuovo inizio, un punto fermo da cui ripartire. 
Restano le ferite sottocutanee, lo smarrimento, i solchi sull'asfalto che la nostra nebbia bassa e odorosa non può rimarginare.

giovedì 22 marzo 2012

La gita scolastica.

Voglio bruciare a Madrid.
Sotto il sole grezzo e pulito di una giornata di marzo, quando, appena usciti da un museo, ci perdiamo nelle stradine vuote e accaldate, tra panni appesi ai balconi, scarpe appese ai fili della luce, fruttivendoli improvvisati che si riparano all'ombra degli alberi. Sono le nostre ore libere tra una collezione d'arte e l'altra, tra la visita ad una chiesa e il treno per Toledo. Le dosi di caffeina annacquate lentamente tramortiscono le ore insonni e cancellano il sapore della brodaglia che l'albergo spaccia per espresso: verso le tre di pomeriggio possiamo dichiararci ufficialmente svegli.
Le canzoni urlate, i neologismi, i vestiti prestati, le nuove scarpe, i cappelli di paglia, gli indovinelli rimasti irrisolti, gli occhiali da sole colorati, le litigate, i portafogli rubati, le irruzioni in camera: i particolari catturano la vitalità, i respiri del tempo.
Quando siamo in treno i quaranta minuti di viaggio lasciano il tempo di assopirsi per pochi secondi, cullati dalla voce di qualche cantante country degli anni 70 e dalla campagna brulla che sfila dietro il finestrino appena lasciato il barrio più periferico della città. A destarci dal torpore è una voce surreale che ci informa di essere giunti al destino.
Spagna che cammina lenta e gaudente, si ferma al bar e ordina un secchio di 5 cervezas 3 euros. Spagna che è possibile vederti tutta dalla terrazza di Parque de la Montana, quando il sole calante disegna ombre arancioni e il vecchio sassofonista dalla camicia di jeans logora canta la languida Malinconia. La vita si ferma, si siede in contemplazione ai lati della fontana: ascolta in estasi.
Voglio bruciare nei parchi di Madrid. 
Dovevamo essere un esercito di atleti e invece alle sei di mattina, sui gradini dell'albergo, siamo gli unici due cristi in pantaloncini e contachilometri in mano. La luce della luna è troppo fioca e al Buen Retiro, finchè il cielo non si illumina, dove non ci sono lampioni è difficile individuare il sentiero, tra buche e specchi d'acqua inaspettati. Non lo ammetterò mai quanto mi fanno male le gambe.
La movida poi non esiste. La cerchiamo disperatamente, sforzandoci anche di esprimerci con la lingua indigena (tante "esse" finali insomma), ma alla fine ci troviamo sempre in qualche museo del jamon in chiusura, a bere birra al bancone con un disturbante aroma di salumi tra le narici. Unica birra della serata che, complice la stanchezza, ci permette di intonare senza pudore un'interpretazione a trio di brani di opere classiche davanti all'albergo. 
In ascensore poi ricordo delle risate soffocanti, per motivi che però non riesco a focalizzare, ma sicuramente validi, a giudicare da come eravamo tutti piegati in due.

I giorni successivi il silenzio è insopportabile, le ore lunghe.

martedì 6 marzo 2012

Bulimia.

Chissà dove vanno a finire gli odori acri della pioggia e le felicità gratuite distribuite in un giovedì festivo che sembra maggio. Sulla luna, dice qualcuno, o tra gli scatoloni di ricordi dimenticati e consumati e di sensazioni sotto la pelle che si affievoliscono nell'indifferenza di un sonno confuso. Nel nostro Alzheimer precoce il passato si fa pallida cronaca e il futuro è solo un oggi più precario. Delle corse notturne tra le buche del parco per strappare una fatica sprecata e compiaciuta, dello stupore infantile alla vista dei tetti coperti di neve, dello scioglimento di questa a furia di soffiarci sopra parole; cosa ricorderemo? Non è che un inutile sfoggio di bellezza, di sfumature, di cui rimarrà solo qualche verso sterile, qualche foto a bassa risoluzione, qualche dipinto che verrà male interpretato. Solo rappresentazioni che si sforzano di carpire lo sfuggente, solo un modo di ordinare la vita non vivendola ma guardandola scorrere dall'alto di un grattacielo. Quella moquette blu impregnata dell'odore del porto della camera d'albergo di Bordeaux, chi me la potrà dare indietro? E quelle mattine a muso duro in cui mi sentivo sicura di non poter reggere un'altra giornata? E ancora i pranzi in famiglia che sembravano interminabili, e invece poi terminavano, quando eravamo tutti troppo stanchi per urlarci ancora addosso? Niente tornerà più, di tutto questo, niente tornerà uguale. E continueremo ad accumulare sensazioni per la gioia o per il dolore di un istante, convinti che quello sia il più importante, l'istante definitivo; invece passerà anche quello e il nostro corpo verrà sottoposto ad altre percezioni, incapace di liberarsi dalla tirannia dell'istante.
Sensazioni ingurgitate continuamente e vomitate nell'incapacità di riviverle e assimilarle.

mercoledì 29 febbraio 2012

Giù, in taverna.

La mattina poi il mal di testa il mal di stomaco il mal di vivere.
Ma di notte le strade infuocate di luci, i marciapiedi bucati che trascinano le scarpe, le chiacchiere sterili e paranoiche, e poi ti va se andiamo a piedi? proprio quando arriva l'autobus. Mi va se andiamo a piedi, dico, e cominciamo a camminare rapide, perchè noi proprio non riusciamo a camminare più lentamente, e le parole vengono da sole, quelle giuste, anche se proprio non so cosa volessi dirti di preciso. La confusione ci avvolge calda appena poggiamo le labbra sulla bottiglia di vino. Ridi, ci guardano tutti male, dici, con il bottiglione in mano e ridi. Rido anch'io.
Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta.
Quando arriviamo è già tutto pieno. Noi ci sediamo sul muretto davanti a finire quel poco di lambrusco che resta, mentre aspettiamo G, in ritardo perchè a metà strada si è accorto di aver dimenticato a casa la catena della bicicletta. Chiedo al vecchio che guarda la partita da fuori, attraverso i vetri, chi gioca e a quanto siamo, come se possa essere un'informazione di qualche interesse e non me ne dimenticassi nel giro di qualche minuto. Persone conosciute di vista, amici di amici, amici, amici in potenza sfilano di fronte a noi, ricevendo cenni, abbracci calorosi e non, linguini, sguardi mancati. Si aggiudica un abbraccio caloroso il buon G, pezzato e contento: entriamo. Giù, in taverna, si fatica a trovare un posto, tra tifosi, campioni di biliardino, sbarbati e veterani; ma finalmente un eccellente tavolino con vista-cessi ci chiama, ai confini sud-orientali del locale. Sul telo si proietta un Buster Keaton che rischia la vita con una serietà surreale, con un sottofondo musicale di Weather Report, credo, ma non ricordo che brano, non ricordo che album. Il caldo intanto, dopo la prima birra, comincia a togliere maglioni e a dilatare le conversazioni; le posture si fanno sbracate e ricordi che sarebbe sempre meglio finissero nell'oblio più nero cominciano a riaffiorare, per l'ilarità dei presenti non coinvolti. Voci si rincorrono, insulti, approcci, bicchieri offerti, canti. Tutto è estremamente chiaro, nell'accozzaglia di rumori, tanto che riuscirei a distinguere ogni singola parola. Come se avesse captato i nostri desideri, poi, il barista ci fa segno di avvicinarci dall'estremità opposta della taverna, per un omaggio dei suoi shottini. Neri, bianchi sulla cima. Non si rifiuta mai niente offerto da uno sconosciuto. E' un pittore lui, mi dice, e abita un po' fuori Milano; gli piace dipingere le fabbriche e i pali della luce, alle sei di mattino.
E in qualche istante passano giorni e anni e ci sentiamo tutti un po' più vecchi; il locale si svuota, G. va a una festa, il biliardino finalmente si libera, e restiamo noi, con un altro paio di disperati, a tenere le luci accese. Solo ora riesco a identificare le locandine dei film appese ai muri e i poster dei concerti, tanto accalcati da soffocarsi a vicenda. Sono stanca, di una stanchezza languida e commovente. Questa sera il barista ha bisogno di parlare e noi, appoggiate al bancone, lo accontentiamo. Duchamp, la fotografia, le gallerie d'arte, Pasolini, le versioni di greco. Ci dice il suo nome, poi. L'ultimo bicchierino nero con la cima bianca, e dopo, davvero, ce ne andiamo. Siamo a piedi, ancora, e a quest'ora gli autobus non passano: chissà se ci succede qualcosa mi dici. Rido. Tanto al massimo moriamo, penso. Insieme, simpatiche, stanche, con i maglioni sgualciti e i capelli che hanno avuto tempi migliori.
Invece non moriamo e non ci succede niente; entriamo a casa in punta di piedi, ci togliamo le scarpe e ci buttiamo ancora vestite a letto.
Non senza prima un paio di biscotti con la Nutella. Almeno io, non so te.

venerdì 17 febbraio 2012

Aspettare in autostrada.

Non guidavo mai, io, accucciata sui sedili posteriori a osservare il passare del tempo, che si trascinava dietro colori, voci radiofoniche squillanti, gli ultimi cieli autunnali, i ricordi di eternit. Eravamo sempre in coda, allora, dovunque ci trovassimo, e ogni volta ci sentivamo protagonisti assoluti delle info traffico di Isoradio, mentre altri tramonti pallidi, di una bellezza trascurabile (di quelli per intenderci che si dice guarda che bel tramonto solo per abitudine, per non rischiare di risultare insensibili di fronte a certi comuni fenomeni naturali) scendevano oscurando i finestrini.
Allora mi mettevo ad osservare il traffico e i trafficanti. Se ne possono distinguere essenzialmente due tipi, di automobilisti: quello che si affanna e cambia continuamente corsia e quello che aspetta che la propria corsia scorra. Il primo è il principale motivo delle famose code all'uscita Roncobilaccio e provoca danni non solo alla sua sudorazione e al suo battito cardiaco, ma anche alla serenità di quelli che aspettano (e, solitamente, arrivano prima). Io, se mai mi deciderò a guidare un mezzo di locomozione, sarò tra quelli che aspettano. E' sempre stato così, per me. La vita ha sempre proceduto, in un modo o nell'altro, di moto involontario; la vita va come deve andare e come è sempre andata. Va tutto bene. Tutto scorre, tutto passa, storie iniziano e finiscono, ogni tanto si accelera, ogni tanto si frena, senza la pretesa di avere sempre la corsia sgombra. Muoversi, sbattersi, girare rischiano di lasciare indietro ciò che cerchiamo.
Mamma me lo diceva sempre, quando ero piccola, che se per caso mi fossi persa nel supermercato sarei dovuta restare ferma in attesa che lei mi trovasse.

A volte capitava che la corsia da cui si erano appena mossi gli ansiosi cominciasse a scorrere. Allora, sforzando un po' la vista, si riusciva a vedere, dietro i vetri opachi, il crescere di un'agitazione e di un nervosismo disumani.

giovedì 16 febbraio 2012

Rovine.

Sei felice? No.
Sei mai stato felice? Sì.
Quando sei stato felice? ...
Sei mai stato felice? No.

Più volte l'ho sfiorata, la felicità. L'ho riconosciuta, mi sono sbracciata per salutarla, le ho sorriso.
Di quegli incontri rimangono solo rovine, rammendate da qualche pezzo di scotch.
Allora c'è da ricostruire tutto da capo.

domenica 12 febbraio 2012

Falsi ricordi.

Il mazzo di fiori che avresti comprato e i soldi che ti avrei ridato, le poesie di Montale scritte con una grafia minuscola su fogli a quadretti stropicciati, i fiori secchi dentro i libri prestati, i mercatini di Natale girati con nervosismo, i pomeriggi infiniti seduti uno di fronte all'altro sulle poltrone della Feltrinelli di piazza Piemonte, le mani fredde riscaldate da mani fredde, i pranzi di tua nonna, i dialoghi brillanti che sembrano tratti da un film di Woody Allen in cui entrambi abbiamo un senso dell'umorismo che non ci appartiene. E poi quando con due bracciate nel mare squallido del porto ti raggiungevo e tu mi schizzavi l'acqua negli occhi, quando alle 4 di notte aspettavamo la 90 per venti minuti e non avremmo desiderato altro, quando finalmente mi hai parlato di tua sorella, quella volta che abbiamo rubato le caramelle al bar del cinema, le camminate notturne sul ponte che dà sulla stazione, quando ti ho tagliato i capelli, le foto scattate dal tuo balcone, i pianti davanti a quel film francese in cui alla fine lei si uccide con uno dei suoi due amanti gettandosi in acqua con la macchina, i tuoi amici che non sopportavo, le mie amiche che non sopportavi, quando ti interrogavo prima dell'esame, quel vino dolce bevuto in un abbraccio caldo, i tuoi piedi brutti, la chitarra scordata, quando ho perso il conto delle volte in cui ci siamo visti, quei viaggi in treno a guardare i lavori in corso e le case non finite agli angoli delle strade, mentre giocavamo ad Uno, e vincevi sempre tu.

Saremmo stati tutto questo: in un altro tempo, con delle altre facce, in una città meno piatta.
Di reale, invece, c'è solo quel silenzio, che mi rimbomba ancora dentro, di quando passavamo i pomeriggi seduti uno di fianco all'altro, fissando il vuoto davanti a noi, accorgendoci di quanto fosse interessante, quel vuoto.
Non era ancora chiaro come mai avessimo così poco da dirci.

mercoledì 8 febbraio 2012

Niente di nuovo sotto la nebbia.

Stiravo i muscoli stesa sul letto di camera sua, le dita incrociate dietro il capo, in testa una canzone risalente ai tempi delle elementari; ne accennavo qualche nota di tanto in tanto. Chissà quale strana sinapsi me l'aveva fatta rievocare.
<<Stai zitta per favore, sto cercando di concentrarmi>>.
Gli lanciai un'occhiataccia che lui, dandomi le spalle, non riuscii a cogliere. Forse la immaginò. Ragionai se fosse il caso di replicare o di obbedire docilmente, ma mentre mi decidevo a rispondere con la solita dose di acidità mi accorsi che erano già passati troppi secondi perchè la mia replica non sembrasse petulante e fuori luogo. Lui era seduto alla scrivania e l'unico espediente che aveva trovato per tenere gli occhi fissi sul libro era quello di reggere la testa con le mani, limitando automaticamente il campo visivo dello sguardo. Si massaggiava le tempie nervosamente e non riuscii a trattenere un sorriso quando, osservando i movimenti delle sue dita, mi sembrò che essi cercassero di riprodurre il ritmo della canzone che stavo canticchiando.
<<Visto che come al solito sei disoccupata, non è che mi vai a fare un caffè?>> disse, senza neanche girarsi nè muoversi dalla sua posizione.
<<C'è quello freddo di stamattina se vuoi>>
<<Fammene un altro, non mi piace freddo>>
<<Te lo riscaldo?>>
<<Non mi piace il caffè vecchio>>
<<E a mamma non piace che buttiamo il caffè vecchio>>
<<Mamma non deve sempre sapere tutto: buttalo nel lavandino e fanne un altro>>
<<Faresti questo a mamma?>>
A questo punto fece un lungo sospiro e poi le lunghe mani affilate gli scivolarono sul volto, a grattare lentamente occhi e sopracciglia, a sfregare le guance portandone la carne in giù e in su in giù e in su. Unì infine i palmi sotto il mento, in una sorta di preghiera alla santa Pazienza.
<<Ok, grazie comunque>>
Mi girai su un fianco e mi trovai faccia a faccia con la solita parete gonfia di nomi facce suoni graffi cuoricini pupazzetti disegnini bigliettini e tanti altri etti ini ini. Mio fratello era così simile a me che a volte mi stupivo che non fosse me; mi facevano quasi incazzare i suoi colori, il suo entusiasmo, il suo sorriso. A volte invece impazziva e mi urlava addosso cose intrise di cattiveria, di malvagità, della voglia di far male fine a se stessa, cose che nessun altro avrebbe potuto dirmi, perchè da nessun altro comprese con tale chiarezza e arguzia. Dove gli altri vedevano i singoli atteggiamenti, i meschini particolari, lui coglieva l'insieme, la cornice di legno tarlato. E così mi distruggeva. Allora lo odiavo: non bisognerebbe mai abusare fino in fondo di un potere maligno tanto influente, è pericoloso.
Quando non si dilettava a rovinarmi l'esistenza, invece, mio fratello era un ottimo compagno di silenziosi pensieri.
Sul muro era comparso una nuova frase quel giorno, scritta su un piccolo foglio a quadretti: Niente di nuovo sotto la nebbia. Restai qualche secondo a fissarla, sovrappensiero. Poi mi alzai bruscamente e mi diressi verso la cucina: tornai nella sua camera dopo cinque minuti, sorseggiando da una tazzina di caffè freddo. <<Io esco, ci vediamo dopo?>>
<<Forse, tu porta le chiavi>>
Mentre chiudevo la porta d'ingresso, sentii che il caffè nella moka cominciava a brontolare.

domenica 5 febbraio 2012

La rasoiata di Occam, per me.

Mi sono accorta che le domande che appaiono tanto insormontabili in verità non sono insormontabili, solo che il tempo (che, non avendo un cazzo da fare, è tanto) che si impiega a cercare nuove intricate risposte le fa apparire tali. Dando una risposta chiara e concisa a tutti i dubbi esistenziali che ci tormentano giorno e notte, avremmo molto più tempo da dedicare a noi stessi (e la mattina non avremmo la faccia sconvolta di chi ha passato l'intera nottata insonne, meditando dissertazioni filosofiche). Qualcuno troverebbe addirittura il tempo di lavarsi, e ciò sarebbe davvero una conquista, specie per i pendolari che devono condividere il treno con traspirazioni per così dire particolari.
Insomma meno domande irrisolvibili=più tempo=beneficio per la società intera.
Poi dovremmo anche trovare un modo per riempire il tempo libero che ne ricaveremmo, ma questo è un problema secondario.
Per dare questa svolta definitiva alla propria vita, ognuno può trovare le sue risposte, l'importante è che siano chiare, evidenti, possibilmente brevi.
Io mi sono prefissata di astenermi dalle conclusioni più raffinate (oltre che più logiche), le quali si sarebbero aggirate nell'ambito del "non lo so e non mi interessa" o, al limite, del "sticazzi", perchè credo di non essere ancora pronta per una verità tanto scomoda e radicale.
Per costruire il mio nuovo castello del sapere, sono partita inizialmente dalla domanda "Dio esiste?": istintivamente la mia risposta è stata negativa, ma andando avanti con i quesiti, mi sono accorta che l'assenza di Dio rendeva tutto molto più complesso, anzi, stava per rigettarmi nel mio precedente stato di confusione. Così ho provato a cambiare la mia prima risposta: ecco che, magicamente, tutto tornava. Era come se l'esistenza di Dio giustificasse tutte le mie conclusioni, le quali, d'altronde, potevano essere tutte ricondotte al Creatore. 

-Il mondo finirà nel 2012? Se Dio lo deciderà.
-Perchè sono brutto? Perchè Dio mi ha dato altre qualità.
-Quali altre qualità ho? Grandi qualità invisibili all'occhio umano.
-Perchè La Russa esiste? Perchè possa causare ilarità e allo stesso tempo indignazione (nobile sentimento) nell'intera stirpe umana.

Tutto è diventato molto più semplice ai miei occhi; ho ricominciato a dormire come un bambino, a grattarmi la pancia nei momenti liberi, a provare il piacere della noia.
Insomma, tutto questo era per dire che sono diventato credente.

Mi fa comodo.

lunedì 30 gennaio 2012

Ma domani chissà.

La pasta era sempre scotta, anche se gli altri tendevano a definirla al dente.
Eravamo in un paesino relegato ai margini della vita civile, su una collina dimenticata dal padre eterno e dai suoi ministri, e per raggiungere il supermercato più vicino facevamo l'autostop sull'Aurelia. Tutti gli automobilisti che ci caricavano ci raccomandavano di non farlo spesso, che oggi vi è andata bene ma domani chissà. Riempivamo il carrello di scatolette di tonno sottocosto, uova sottocosto, pizze surgelate sottocosto, Gocciole Pavese (solo se scontate), polpa di pomodoro sottocosto, mozzarelle sottocosto, Philadelphia (anche non scontato), birra quella che c'era in offerta, gorgonzola sottocosto, grissini sottocosto e il lambrusco da un euro. Alla fine non ci stavamo mai con i soldi e dovevamo lasciare qualcuno dei rinomati prodotti, scelti con una cura maniacale e oggetto di lunghe discussioni, sullo scaffale sbagliato. Poi, con i nostri sacchetti, che pesavano sempre meno di quanto avremmo voluto, entravamo nel noleggio film di fronte al supermercato e affittavamo due film da vedere tra pomeriggio e sera. Affondati nel divano, con i piedi appoggiati sulle sedie di legno, Gocciole e birra l'unica dieta possibile, l'aria viziata e umida, parole sussurrate.
Di quest'estate ricordo la totale assenza di pensieri. La mente vuota, volta solo a garantire una sopravvivenza dignitosa: mangiare, dormire, parlare, lavarsi. Ridere, piangere.
Ricordo che i film erano tutti squallidamente banali, colpa dei consigli dell'inesperto noleggiatore, di cui ogni volta, immancabilmente, finivamo per fidarci.
Ridere, piangere.
Vorrei ricordarmi anche di cosa ho sognato quella volta in cui mi sono addormentata vestita sul tappeto e poi mi sono svegliata infreddolita. Ma domani chissà.

domenica 29 gennaio 2012

L'unico modo per sopportare una debolezza è non confessarla a nessuno.

Prendiamo ad esempio mia mamma.
Ecco, la mamma dovrebbe essere una persona che ti ama in modo disinteressato, che farebbe di tutto pur di non ferirti e tutte le altre cose che si dicono.
Ecco, a mia mamma ho detto che in alcuni momenti di lucidità mi disprezzo per l'ostinata indifferenza che metto in ogni attività che faccio, per il mio incomprensibile senso di superiorità nei confronti di ogni altro essere umano, per l'abitudine a non prendere mai niente sul serio. Perchè poi, tutti lo sappiamo, niente ha davvero senso.
Insomma, le ho detto, sono un cinica del cazzo.
Mamma ha incamerato con espressione compunta questa confessione.
Tempo un paio d'ore, puntuale come l'autobus della direzione opposta a quella che devi prendere, mamma ha giocato la sua carta vincente per porre fine ad una discussione altrimenti da me dominata: "Ma cosa ne parlo con te, lo dici tu stessa che sei una cinica [del cazzo]!"

Devo ricordarmene. Di non confessare debolezze se non voglio che queste mi vengano rinfacciate.

giovedì 26 gennaio 2012

Le coincidenze mi evitano come la peste.

Vorrei che le coincidenze non fossero un'entità intellettuale, un prodotto editoriale o cinematografico, ma che esistessero davvero. Invece le occasioni giuste passano sempre mentre sono stravaccata sul letto, intenta a mordicchiarmi le unghie o a mangiare caramelle gommose rubate a mia sorella.
Poi, il fatto che queste attività (che comprendono gran parte della mia giornata tipo) non favoriscano in modo particolare l'avvenire delle suddette fortunate coincidenze è tutta un'altra storia.

mercoledì 25 gennaio 2012

La Normalità.

Io le persone strane non le sopporto.
Non sopporto i lunatici, gli scortesi, quelli che un giorno ti baciano con tanto di lingua e la volta dopo fingono di non riconoscerti, i taciturni. Ma anche i logorroici, o quelli dalla risata (o dalla battuta) inopportuna, per non parlare di quelli che in ogni conversazione devono per forza inserire un accenno alla ricchezza dei parenti.
Gli antisociali e i sociali.
Mi innervosisce ogni comportamento eccessivo.
Bisognerebbe stabilire delle ferree regole di convivenza civile e sociale. Delle regole di Normalità.
Che ormai, questa Normalità, è quasi diventata una parolaccia, ma a me piace tanto.

martedì 17 gennaio 2012

Falso movimento.

Persone che camminano, guardano l'orologio, camminano ancora.
Salgono in macchina, fanno le vasche sulla banchina della stazione, corrono al parco, si spintonano per riuscire ad entrare in metropolitana.
C'è chi prende l'aereo ogni mattina per lavorare dall'altra parte del mondo e chi lo fa per andare in vacanza: qualcuno torna abbronzato e più stressato di prima e qualcun altro torna a casa a nuoto, dopo che la nave da crociera su cui si trovava si è incagliata sugli scogli.
Marco ha 7 anni, fa la seconda elementare, e ogni giorno sente dire alla mamma che, tra ufficio e pulizie casalinghe, non ha tempo per dedicarsi a ciò che le piace. Così ha iniziato a dire anche lui che, tra tennis e compiti di matematica, non ha più tempo per dedicarsi a ciò che gli piace.

Tapparelle chiuse.
Tavolo bianco della cucina, spremuta d'arancia, carta e penna.
Tutto il resto è falso movimento.