giovedì 24 maggio 2012

La mia passività di fronte ai finestrini.

Non guiderò mai un aereo, l'esame della patente è troppo difficile da passare e mi vengono i crampi alle gambe solo all'idea di pedalare per cinque minuti di fila. A me piace essere trasportata. L'asfalto corre sotto di me e io sono ferma; è l'unica occasione in cui le mie paranoie me lo concedono, di stare ferma e di non dovermi preoccupare di niente. Davvero, dico ai miei sensi di colpa, io vorrei fare qualcosa, ma proprio non posso, impegnata come sono a reggermi al manubrio della bici o al lembo di una maglietta; è già tanto se il vento non mi sfila le lenti già secche da un pezzo. Anche in treno e in macchina di leggere non se ne parla, se non voglio che mi si riproponga la pasta che ho ancora sullo stomaco, figurarsi in metropolitana, quando il viavai di simpatiche ed educate vecchiette impedisce il mantenimento di una posizione eretta stabile. Allora posso finalmente abbandonarmi passivamente al film che propone la realtà, a volte con tanto di colonna sonora: le case che sfrecciano grigie o colorate o tristi abbandonate con i terrazzi con i fiori e i portoni i tetti a punta le finestre piccole le antenne, e chissà chi ci abita, chissà come sarebbe stato se fossi nata lì. E le persone come sono stressate, altre incredibilmente felici sorridono agli sconosciuti e salutano il fruttivendolo il giornalaio e Abdul che vende accendini, anche se non comprano niente. Mi piace anche mangiare i chilometri nell'Italia delle campagne, gialla verde grigia e azzurra, a strisce, e vorrei fermarmi in ciascuna di quelle fermate blu dai nomi esotici, perchè tutto passa troppo in fretta e ho sempre la sensazione di perdere qualcosa di fondamentale per strada che non riuscirò più a recuperare.
Mi piacerebbe essere bloccata in questi oggetti di ferro per ore e guardo senza entusiasmo l'avvicinarsi della destinazione; non posso neanche decidere di farmi trasportare più di quanto dovrei, e poi tornare indietro, perchè altrimenti i miei sensi di colpa comincerebbero a martellarmi la testa, ricordandomi quante cosa avrei potuto fare in tutto quel tempo. Schiavi della fuga del tempo, ecco cosa siamo.
Mi godo dunque questi brevi sguardi sulle esistenze, perse nei meandri di un paese o nascoste nei vicoli, cercando sempre di prediligere le mete più remote, che possibilmente attraversino tutta la città o tutto il paese.

lunedì 7 maggio 2012

Ricordarti di andare a votare.

Stamattina ti ho chiamato per ricordarti di andare a votare.
La voce impastata suggeriva inequivocabilmente che ti eri appena svegliato, ma tu imperterrito continuavi a sostenere che eri sveglio già da un po': avevi già fatto una lavatrice e messo sul fuoco la moka.
Erano le nove e ti ho svegliato per ricordarti di andare a votare.
Sono dieci anni che non vado a votare, lo sai.
Questa volta potresti farlo, dico, è emozionante non trovi? Sapere che gran parte dei cittadini prima di andare a lavorare va in una scuola elementare, tra i cartelloni colorati i sottobanchi ripieni e tutto, a scegliere con una X. E poi attende con ansia febbrile le proiezioni attaccato alla radio. Davvero, dico, non è emozionante? L'odore delle urne, la giovialità degli scrutatori universitari. Riesci anche ad intascarti la matita se sei abbastanza scaltro.
Ridi. Non vai a votare per i soliti motivi, che sono sempre quelli; quelli di quest'estate seduti sul gradino in quella piazzetta vuota, con una birra in due. Quelli per cui la gran parte dei cittadini prima di andare a lavoro dorme e non frequenta scuole elementari.
Potresti farlo invece, come atto d'amore per la tua città: per la sopraelevata che dà sul porto, per la coda davanti all'acquario, per le focaccerie sul mare, le barche appoggiate ai moletti, il Pinelli, il bar aperto ad ogni ora dietro la stazione. E lo sai che io, a quel buco di culo della tua città, voglio bene più perchè ci sei tu che per la città stessa.
Hai ragione, ci vado a votare questa volta... Voto l'amico di Grillo.
Inutile, a questo punto, provare a convincerti a non andare a votare.
Del resto ti sono sempre piaciuti i venditori di certezze facili. Come me ad esempio.
Ti attacco in faccia irritata, come tutte le volte, negli ultimi mesi. La Vodafone ringrazia per l'ennesima telefonata chilometrica.

domenica 6 maggio 2012

Il tuttologo.

E' il tipo che s'intromette con disinvoltura in una discussione sul Dogma 95 e in una sull'angiosarcoma, passando per i commenti sul reattore nucleare a fissione e sull'importanza del Romanticismo nella formazione del sentimento nazionale. Egli si trova sempre a suo agio, in ogni situazione, basta che abbia la possibilità di dire la sua e di esibire le sue presunte conoscenze.
La sua abilità è quella di ridurre la portata dei problemi a frasi ad effetto, citazioni (che spesso non hanno nulla a che fare con l'argomento), sentenze vaghe e vuote, soluzioni semplicistiche che sfiorano la demagogia. Così di fronte ad una conversazione rammaricata sullo sfacelo della politica interviene con un sempreverde largo ai giovani (naturalmente valido anche per le proposte musicali e per il problema della disoccupazione); nel mezzo di una discussione su un film che non ha visto ci tiene a precisare che adora quel regista ma i primi film erano migliori; in caso di dubbio dei suoi interlocutori non perde occasione per bluffare e dirsi certo che le cose stanno così. E' un uomo sicuro di sè, il tuttologo, non c'è che dire, lo si capisce dal modo in cui proferisce parola, come se dalla sua bocca colasse oro.
Il profeta dei nostri tempi non ha rapporti diretti o telefonici con Dio, ma ha come unico datore di lavoro il Senso Comune, che gli prescrive le frasi giuste (ed innocue) da declamare.
Il tuttologo esercita il diritto di parola in modo improprio, sconsiderato, dannoso per i suoi interlocutori e per l'intera umanità. In un mondo più giusto, insomma, la tuttologia dovrebbe essere un reato perseguibile per legge.