lunedì 23 dicembre 2013

I am trying to break your heart.

C'è la storia di questo bevitore di acquari che assassina lungo il viale e si chiede a cosa stava pensando quando l'ha lasciata andare. E' una storia a cui penso di tanto in tanto, ma che in clima natalizio s'impossessa completamente della mia testa.
Sarà che era Natale, qualche anno fa, quando ho ascoltato per la prima volta quella canzone. Nevicava, era finita la scuola, prendevo il tè a casa di amici con cui non sapevo di cosa parlare. Avevo tante cose per la testa e probabilmente credevo che fosse un brutto periodo. Non lo era. Ma a posteriori non vale.
Ricordo che leggevo Franzen e da allora Franzen e Wilco rappresentano per me un connubio indissolubile, uno stessa opera scissa in due forme d'arte diverse. Anche se non so di cosa parli la maggior parte delle canzoni degli Wilco, io ci sento dentro il trovarsi e perdersi in vecchi appartamenti con persone che credevi di aver dimenticato, le relazioni che sembrano non reggere (ma alla fine reggono) alla quotidianità sotto il tetto di ville a schiera prefabbricate, i grandi ideali che devono scendere a compromessi con la realtà, figli che non parlano con i padri e padri che non parlano con nessuno. Ci sento dentro tante cose comuni e facili e l'estrema problematizzazione di queste cose tanto comuni e facili. Vedo persone che stanno bene, hanno una bella famiglia e una buona educazione, e poi vedo queste persone realizzare che tutto ciò non è abbastanza: le vedo distruggere tutto e struggersi in rimpianti o ambizioni estreme.
E questo bevitore di acquari che sta provando a spezzarle il cuore è uno di loro. Non gli risulta per niente difficile, spezzarle il cuore. E' un attimo, ci vuole poco. Ma una domanda lo tormenta: cosa pensavo allora? Quando tutto era immobile, ancora intero, e sembrava naturale stringersi, darsi la buonanotte, dirsi puzzi di alcol o smettila di sorridere, quando si poteva tornare indietro senza troppi danni. Quando ci si faceva del male a vicenda e poi si mentiva, tranquillo sto bene.
Da lì in poi c'è solo l'istinto all'autodistruzione. Con operazioni precise, chirurgiche, silenziose. E nella pulizia generale nel cestino finiscono anche quelle sensazioni provate un po' per caso, con spirito indolente, così flebili da svanire nell'impatto con il bisturi della razionalità.
Cosa pensavo allora? A problematizzare le cose semplici, credo.

giovedì 19 dicembre 2013

Discorsi sterili.

Mi affacciai allo studio e vidi mamma e papà alla scrivania, entrambi con un portatile davanti a sè.
Ciao dissi. Mamma si girò dalla sua postazione, ciao tesoro, papà invece emise un grugnito e mosse appena la testa, con quello che avrebbe dovuto essere un cenno di saluto. Non so se si parlassero allora, mentre erano così intenti in quei traffici informatici. Forse mamma ogni tanto gli chiedeva come mandare una mail a più destinatari o come salvare una foto da internet: era ancora una principiante, come era solito dire papà ai suoi colleghi, con un misto di orgoglio per la sua creatura e di disprezzo per le scarse capacità della moglie. Ogni tanto, dopo qualche bicchiere di vino, le dava un buffetto paternale sulla guancia.
- C'è qualcosa da mangiare?- chiesi.
- Sì, tesoro, c'è la pasta da scaldare. Aspetta che ti aiuto-
Mamma si alzò, andò in cucina, scoperchiò il piatto che era sul tavolo, lo mise nel microonde, poi sbuffò: << Che fatica, sono stanchissima... Tu come stai piccola mia?>>. Le risposi niente male, non fosse che avevo bevuto un po' troppo ed ero caduta dalla bici: non le raccontai (nè lei me le chiese) le circostanze dell'incidente, altrimenti temo che sarei stata costretta a mentire. << Dovresti stare più attenta tesoro, e forse non bere più... Non vorrai mica diventare come tuo padre!>>. Dall'altra stanza arrivò la voce di papà che mi dava le indicazioni su dove si trovava il disinfettante. << Hai capito dove tesoro? Ce la fai da sola?>>. Poi tornò nello studio senza una parola.
Le tagliatelle ai funghi erano deliziose, come sempre; erano il piatto preferito di papà e mamma le cucinava spesso. Da quand'è che erano diventati così? mi chiedevo stancamente, un occhio a Floris, uno al cellulare. Non me ne importava molto, in verità, e d'altronde in quella casa non è che ci passassi molto tempo. E non avrei neanche saputo dire in cosa consisteva quel così. I miei genitori non erano mai state delle persone coinvolgenti, ma forse c'era stato un periodo in cui si erano illusi che lo fossi io, una persona coinvolgente. Voglio dire, in tempi diversi mamma mi avrebbe inondato il ginocchio di acqua ossigenata fino a farmi urlare di dolore.
Ma, in fondo, chissenefrega. Discorsi sterili. Se è per questo sono passati anche i tempi in cui bastava l'acqua ossigenata a farmi piangere di dolore.

venerdì 6 dicembre 2013

Capirmi.

Si fa un passo in avanti, dieci indietro, undici in avanti e alla fine si è sempre lì, in quel punto di equilibrio e consapevolezza individuale che non ci si scolla mai di dosso.
Al momento, credo di essere nella fase diecipassindietro. In particolare sono arrivata a quella conclusione infantile già confutata da tempo per cui il mondo - inteso come amalgama, indefinibile ma ben definito nella coscienza di ognuno, di esseri viventi beni mobili e immobili schermi neri condizioni atmosferiche - non mi capisce. E nemmeno si sforza di capirmi. La mia amica non s'impegna minimamente per capirmi e nemmeno la mia scarpa o il libro che sto leggendo. Ci vorrebbe del tempo, per capirmi, invece hanno sempre tutti da fare.
Io non parlo, ho smesso di parlare da tempo (unico rimasuglio dei brillanti risultati raggiunti qualche casella più avanti), e a nessuno importa. Nessuno se n'è accorto che ho smesso di parlare.
Ho detto a mio fratello che sono anni che non mi chiede come sto. Lui mi ha guardata, ha guardato la mamma, poi si è messo il cappotto e ha detto che andava in palestra. Se me l'avesse chiesto, come stavo, io gli avrei risposto che stavo bene senza troppa convinzione; e allora sì che mio fratello avrebbe potuto indagare, cercando di capire cosa c'era che non andava. Troppo facile se l'avessi esplicitato io. Uno ci dovrà pur mettere un po' di impegno per capirmi.
La globalità dell'esistente è in debito con me, per non aver mai cercato di capirmi. E che poi non ci sia niente da capire è un altro discorso, del tutto irrilevante. Ma lo sforzo, almeno quello, mi è dovuto.