domenica 2 dicembre 2012

Identici e lontanissimi

A volte ti sentivo vicino, quando non eri con me, e compivo ogni gesto sentendo il tuo respiro sulla pelle. Avrei voluto urlarlo, piangerlo, inciderlo su un disco, disegnarlo sulle nuvole di fumo, persino riderlo se l'italiano me l'avesse permesso; avrei voluto racchiuderlo in barattoli, quell'infinito, per poi venderli, sfondarmi di soldi e terminare la mia esistenza su qualche isola sperduta dell'Oceano Pacifico. Vendere l'infinito: mica male, roba da citazione sui libri di Storia.
Eppure non riuscivo. Niente urla, pianti, incisioni, disegni, risate, nè, tantomeno, soldi. Rimanevo così, sdraiata a pancia in su sul letto, a fissare il soffitto. Ti sentivo dentro come un misterioso nuovo organo, aggregazione di cellule morte e resuscitate; gli anticorpi non erano riusciti a bloccare la creazione di quel corpo estraneo ed ora era parte di me. Si contraeva con così tanta pervicacia da non lasciarmi mai indifferente, tanto che il suo pensiero occupava ormai gran parte del mio tempo: mi faceva sorridere, a volte stare male. Sentimento è insieme ampliamento ed annullamento di sè, surreale ed incatalogabile, malgrado gli sforzi, le definizioni date a tavolino, le semplificazioni. Roba densa, totalizzante, vischiosa.
Altre volte, invece, eri lontano e grigio nella tua piccolezza. Meschino come tutti gli esseri umani, meschino come me. Allora urlavo, piangevo, incidevo, disegnavo, ridevo, riuscendo nella complicatissima impresa di esprimere il Vuoto in tutti i modi possibili. E poi mi tornava finalmente l'appetito ed ingurgitavo di tutto pur di riempire lo spazio lasciato libero dalla scomparsa di un organo vitale.

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