giovedì 22 marzo 2012

La gita scolastica.

Voglio bruciare a Madrid.
Sotto il sole grezzo e pulito di una giornata di marzo, quando, appena usciti da un museo, ci perdiamo nelle stradine vuote e accaldate, tra panni appesi ai balconi, scarpe appese ai fili della luce, fruttivendoli improvvisati che si riparano all'ombra degli alberi. Sono le nostre ore libere tra una collezione d'arte e l'altra, tra la visita ad una chiesa e il treno per Toledo. Le dosi di caffeina annacquate lentamente tramortiscono le ore insonni e cancellano il sapore della brodaglia che l'albergo spaccia per espresso: verso le tre di pomeriggio possiamo dichiararci ufficialmente svegli.
Le canzoni urlate, i neologismi, i vestiti prestati, le nuove scarpe, i cappelli di paglia, gli indovinelli rimasti irrisolti, gli occhiali da sole colorati, le litigate, i portafogli rubati, le irruzioni in camera: i particolari catturano la vitalità, i respiri del tempo.
Quando siamo in treno i quaranta minuti di viaggio lasciano il tempo di assopirsi per pochi secondi, cullati dalla voce di qualche cantante country degli anni 70 e dalla campagna brulla che sfila dietro il finestrino appena lasciato il barrio più periferico della città. A destarci dal torpore è una voce surreale che ci informa di essere giunti al destino.
Spagna che cammina lenta e gaudente, si ferma al bar e ordina un secchio di 5 cervezas 3 euros. Spagna che è possibile vederti tutta dalla terrazza di Parque de la Montana, quando il sole calante disegna ombre arancioni e il vecchio sassofonista dalla camicia di jeans logora canta la languida Malinconia. La vita si ferma, si siede in contemplazione ai lati della fontana: ascolta in estasi.
Voglio bruciare nei parchi di Madrid. 
Dovevamo essere un esercito di atleti e invece alle sei di mattina, sui gradini dell'albergo, siamo gli unici due cristi in pantaloncini e contachilometri in mano. La luce della luna è troppo fioca e al Buen Retiro, finchè il cielo non si illumina, dove non ci sono lampioni è difficile individuare il sentiero, tra buche e specchi d'acqua inaspettati. Non lo ammetterò mai quanto mi fanno male le gambe.
La movida poi non esiste. La cerchiamo disperatamente, sforzandoci anche di esprimerci con la lingua indigena (tante "esse" finali insomma), ma alla fine ci troviamo sempre in qualche museo del jamon in chiusura, a bere birra al bancone con un disturbante aroma di salumi tra le narici. Unica birra della serata che, complice la stanchezza, ci permette di intonare senza pudore un'interpretazione a trio di brani di opere classiche davanti all'albergo. 
In ascensore poi ricordo delle risate soffocanti, per motivi che però non riesco a focalizzare, ma sicuramente validi, a giudicare da come eravamo tutti piegati in due.

I giorni successivi il silenzio è insopportabile, le ore lunghe.

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