venerdì 17 febbraio 2012

Aspettare in autostrada.

Non guidavo mai, io, accucciata sui sedili posteriori a osservare il passare del tempo, che si trascinava dietro colori, voci radiofoniche squillanti, gli ultimi cieli autunnali, i ricordi di eternit. Eravamo sempre in coda, allora, dovunque ci trovassimo, e ogni volta ci sentivamo protagonisti assoluti delle info traffico di Isoradio, mentre altri tramonti pallidi, di una bellezza trascurabile (di quelli per intenderci che si dice guarda che bel tramonto solo per abitudine, per non rischiare di risultare insensibili di fronte a certi comuni fenomeni naturali) scendevano oscurando i finestrini.
Allora mi mettevo ad osservare il traffico e i trafficanti. Se ne possono distinguere essenzialmente due tipi, di automobilisti: quello che si affanna e cambia continuamente corsia e quello che aspetta che la propria corsia scorra. Il primo è il principale motivo delle famose code all'uscita Roncobilaccio e provoca danni non solo alla sua sudorazione e al suo battito cardiaco, ma anche alla serenità di quelli che aspettano (e, solitamente, arrivano prima). Io, se mai mi deciderò a guidare un mezzo di locomozione, sarò tra quelli che aspettano. E' sempre stato così, per me. La vita ha sempre proceduto, in un modo o nell'altro, di moto involontario; la vita va come deve andare e come è sempre andata. Va tutto bene. Tutto scorre, tutto passa, storie iniziano e finiscono, ogni tanto si accelera, ogni tanto si frena, senza la pretesa di avere sempre la corsia sgombra. Muoversi, sbattersi, girare rischiano di lasciare indietro ciò che cerchiamo.
Mamma me lo diceva sempre, quando ero piccola, che se per caso mi fossi persa nel supermercato sarei dovuta restare ferma in attesa che lei mi trovasse.

A volte capitava che la corsia da cui si erano appena mossi gli ansiosi cominciasse a scorrere. Allora, sforzando un po' la vista, si riusciva a vedere, dietro i vetri opachi, il crescere di un'agitazione e di un nervosismo disumani.

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