mercoledì 29 febbraio 2012

Giù, in taverna.

La mattina poi il mal di testa il mal di stomaco il mal di vivere.
Ma di notte le strade infuocate di luci, i marciapiedi bucati che trascinano le scarpe, le chiacchiere sterili e paranoiche, e poi ti va se andiamo a piedi? proprio quando arriva l'autobus. Mi va se andiamo a piedi, dico, e cominciamo a camminare rapide, perchè noi proprio non riusciamo a camminare più lentamente, e le parole vengono da sole, quelle giuste, anche se proprio non so cosa volessi dirti di preciso. La confusione ci avvolge calda appena poggiamo le labbra sulla bottiglia di vino. Ridi, ci guardano tutti male, dici, con il bottiglione in mano e ridi. Rido anch'io.
Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta.
Quando arriviamo è già tutto pieno. Noi ci sediamo sul muretto davanti a finire quel poco di lambrusco che resta, mentre aspettiamo G, in ritardo perchè a metà strada si è accorto di aver dimenticato a casa la catena della bicicletta. Chiedo al vecchio che guarda la partita da fuori, attraverso i vetri, chi gioca e a quanto siamo, come se possa essere un'informazione di qualche interesse e non me ne dimenticassi nel giro di qualche minuto. Persone conosciute di vista, amici di amici, amici, amici in potenza sfilano di fronte a noi, ricevendo cenni, abbracci calorosi e non, linguini, sguardi mancati. Si aggiudica un abbraccio caloroso il buon G, pezzato e contento: entriamo. Giù, in taverna, si fatica a trovare un posto, tra tifosi, campioni di biliardino, sbarbati e veterani; ma finalmente un eccellente tavolino con vista-cessi ci chiama, ai confini sud-orientali del locale. Sul telo si proietta un Buster Keaton che rischia la vita con una serietà surreale, con un sottofondo musicale di Weather Report, credo, ma non ricordo che brano, non ricordo che album. Il caldo intanto, dopo la prima birra, comincia a togliere maglioni e a dilatare le conversazioni; le posture si fanno sbracate e ricordi che sarebbe sempre meglio finissero nell'oblio più nero cominciano a riaffiorare, per l'ilarità dei presenti non coinvolti. Voci si rincorrono, insulti, approcci, bicchieri offerti, canti. Tutto è estremamente chiaro, nell'accozzaglia di rumori, tanto che riuscirei a distinguere ogni singola parola. Come se avesse captato i nostri desideri, poi, il barista ci fa segno di avvicinarci dall'estremità opposta della taverna, per un omaggio dei suoi shottini. Neri, bianchi sulla cima. Non si rifiuta mai niente offerto da uno sconosciuto. E' un pittore lui, mi dice, e abita un po' fuori Milano; gli piace dipingere le fabbriche e i pali della luce, alle sei di mattino.
E in qualche istante passano giorni e anni e ci sentiamo tutti un po' più vecchi; il locale si svuota, G. va a una festa, il biliardino finalmente si libera, e restiamo noi, con un altro paio di disperati, a tenere le luci accese. Solo ora riesco a identificare le locandine dei film appese ai muri e i poster dei concerti, tanto accalcati da soffocarsi a vicenda. Sono stanca, di una stanchezza languida e commovente. Questa sera il barista ha bisogno di parlare e noi, appoggiate al bancone, lo accontentiamo. Duchamp, la fotografia, le gallerie d'arte, Pasolini, le versioni di greco. Ci dice il suo nome, poi. L'ultimo bicchierino nero con la cima bianca, e dopo, davvero, ce ne andiamo. Siamo a piedi, ancora, e a quest'ora gli autobus non passano: chissà se ci succede qualcosa mi dici. Rido. Tanto al massimo moriamo, penso. Insieme, simpatiche, stanche, con i maglioni sgualciti e i capelli che hanno avuto tempi migliori.
Invece non moriamo e non ci succede niente; entriamo a casa in punta di piedi, ci togliamo le scarpe e ci buttiamo ancora vestite a letto.
Non senza prima un paio di biscotti con la Nutella. Almeno io, non so te.

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